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IL MOSTRO DI LOCHNESS

L’aria calda ed opprimente del pomeriggio arrostiva la striscia di campi stretta tra il paese e l’argine del fiume ed intorpidiva i muscoli ed i pensieri.
Ma noi eravamo già in giro. Stavamo pedalando in direzione della palude senza curarci del sudore che colava sulla pelle come un fiumiciattolo untuoso.
Ci eravamo ritrovati dietro la chiesa, subito dopo il solito pranzo spazzolato a velocità supersonica, ed avevamo lasciato il paese in silenzio per non farci notare ed in preda al terrore puro al pensiero di quello che stavamo per fare.
Nella vita a volte è necessario saper lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza: le ultime case del paese diventarono ben presto sagome sbiadite rese evanescenti dalla calura, come tanti lontani miraggi, e noi ci trovammo soli, nel bel mezzo della campagna flagellata dal sole.
Il cielo era una distesa grigia. La strada deserta. E tutt’intorno ettari su ettari di aperta campagna.
Più avanti, i ruderi del vecchio mulino troneggiavano come uno spettro solitario su quel cimitero agreste.
Nessuno parlava. L’unico suono era quello prodotto dalle ruote delle biciclette, che graffiavano i ciottoli e le buche del selciato, accompagnato del sibilo sottile del vento che disegnava onde irregolari sull’oceano verde dei campi dove anche un piccolo albero appariva come un atollo, sperduto e lussureggiante.
Dopo circa mezz’ora giungemmo nei pressi della cascata e, nascoste le biciclette tra gli arbusti, ci tuffammo nella fitta boscaglia.
Indietro non si poteva più tornare: avevamo un conto aperto con quelli più grandi, quelli che, fuori dal bar, ci prendevano sempre di mira insultandoci, quando andava bene, con epiteti tipo “rammolliti”, “mocciosi” o “buoni a nulla” e per questo motivo avevamo deciso di farla finita.
Per farli smettere una volta per tutte, visto che a voler competere sul piano fisico c’era il rischio concreto di trascorrere un paio di mesi ingessati, non c’era altro da fare che riuscire in un’impresa impossibile dove tutti, fino a quel momento, avevano sempre fallito.
E che parlassero pure, dopo, se ne avevano il coraggio!
Quei quattro ragazzini, sempre pieni di croste e di graffi, che tutti prendevano in giro, sarebbero scomparsi per sempre, come una frase sgrammaticata dalla lavagna. Al loro posto sarebbero arrivati dei “veri uomini” che tutti avrebbero ammirato e rispettato.
Altro che rammolliti, mocciosi e buoni a nulla!
E noi ce ne saremmo vantati per tutta la vita, in paese, al bar ed in tutto il circondario, prendendoci finalmente una bella rivincita su tutte quelle canaglie che ci avevano sempre umiliati ed offesi.
Accelerammo il passo e, attraversato il boschetto di gaggie, giungemmo al limitare della palude. Il silenzio che ci circondava era assoluto ed irreale; mosche e tafani erano scomparsi, come per magia, ed anche il rumore della cascata giungeva ovattato come se provenisse da un’altra dimensione. Ci facemmo largo nell’erba alta, che trasformava il paesaggio in un angolo di Amazzonia in piena pianura padana, cercando di scacciare il pensiero che tutto quel silenzio significasse la calma prima della tempesta, ed arrivammo finalmente a posare i piedi sulla riva melmosa della palude.
La pozza d’acqua non era molto grande, ma la superficie era coperta da un tappeto di foglie e piccole alghe verdi. Il terreno circostante era viscido ed impregnato d’acqua e le ombre dei rovi disegnavano matasse aliene sulla superficie stagnante.
Resti di vecchi tronchi semisommersi ne circondavano il perimetro e grossi alberi, coperti di muschio, si piegavano verso l’acqua cosicché i rami più bassi formassero con il canneto e gli arbusti un groviglio inestricabile, davvero tetro ed impressionante.
Il Mostro di Lochness doveva essere là, da qualche parte.
Smettemmo persino di respirare per paura che ci sentisse!
Quel nome glielo avevo affibbiato io. Avevo associato le storie che sentivo raccontare in paese alla più celebre leggenda scozzese. Quel luogo, sinistro e lugubre, dove si diceva vivesse, aveva poi messo la classica cigliegina sulla torta.
Di mostruoso, di sicuro, c’erano le dimensioni e la fama che quell’essere nel tempo si era meritata.
Era senz’altro un grosso pesce, forse un luccio ma, più probabilmente, un siluro che molti giuravano di avere visto ma che nessuno era mai riuscito a catturare.
Si diceva che, quando aveva fame, non c’era rivale o preda che potesse sopraffarlo. Divorava di tutto: pesci, rane, topi, uccelli e persino galline, aironi, anatre e cani.
Qualche sconsiderato in paese sentenziava che poteva ingoiarsi pure i bambini.
Fabio si guardò bene intorno e poi mormorò con voce cupa: “Una volta, Angelino, il vaccaro, è venuto qui a cercare i funghi, insieme al suo cane, e se ne è tornato in paese da solo….”. Mario, dal canto suo, ebbe la buona idea di rincarare la dose: “E io ho sentito dire che Berto, il figlio della Marietta, ha giurato che il mostro lo ha aggredito quel giorno che era venuto qui a pescare e che si è salvato per miracolo…”.
Il panico aumentò fino a farci tremare. “Ma, ragazzi….”, cercai allora di sdrammatizzare, “Non è che quel povero cane, anziché diventare lo spuntino del mostro, abbia preferito cambiare aria, piuttosto di stare con uno che si lava una volta al mese, se va bene, e lo riempie di bastonate tutti i santi giorni?”.
I miei amici annuirono e trattennero a stento le risa. Allora affondai il colpo, “Beh, e in quanto a Berto, sono sicuro che, con tutto il tempo che passa al bar, riuscirebbe persino a vedere i marziani atterrare con il disco volante sull’aia della Cascina Nuova!”.
Fare finta che tutto andava bene era sempre stato un nostro talento. Scoppiammo tutti in una risata fragorosa e ci preparammo all’impresa.
Avevamo stabilito e diviso i compiti: io e Fabio ci sbarazzammo in fretta di vestiti e scarpe e ci calammo nell’acqua stagnante della pozza. Il nostro compito era il più difficile perché dovevamo sondare, con le mani, gli anfratti vicino alla riva, nel canneto e sul fondo della palude allo scopo di stanare il mostro.
Mario, con la rete, si sarebbe calato in acqua dalla parte opposta alla nostra per venirci incontro, mentre Adolfo faceva il palo, nascosto dietro i rovi, per avvertirci se qualcuno fosse capitato nei paraggi e per darci una mano nel malaugurato caso, abbastanza probabile, che la cosa finisse male.
Eravamo tutti consapevoli che il fragile castello di carte che avevamo costruito poteva crollare da un momento all’altro. Il mostro poteva essersi rintanato chissà dove e, anche ammesso che fossimo riusciti a stanarlo con i pochi mezzi a nostra disposizione, sarebbe potuto sparire in profondità e lasciarci tutti con un palmo di naso.
L’impresa era ardua, al di sopra delle nostre possibilità, ma noi avevamo dalla nostra parte l’incoscienza dei nostri undici anni e tutti gli insulti degli ultimi tempi, e così a mollare non ci pensava nessuno.
Non ci saremmo fermati per niente al mondo, neanche a costo di tornare a casa fradici e coperti di fango dalla testa ai piedi o, peggio, scomparire per sempre negli abissi della palude. Non stavolta. Non così vicini a quella rivincita sognata per tanto tempo che ci sembrava ora così tanto a portata di mano.
Tastammo ogni anfratto, sotto le pietre e tra i vecchi tronchi marci, sempre senza successo e anche la successiva esplorazione del canneto non diede miglior risultato.
Sprofondando sempre di più nel fango ci stavamo avvicinando al centro della pozza e l’acqua fetida ci lambiva ormai le spalle. Ancora qualche passo e non saremmo stati più in grado di proseguire.
E del mostro nemmeno l’ombra!
Stavamo per tornare mestamente a riva quando sfiorai qualcosa di viscido. All’inizio lo scambiai per una grossa pietra, poi mi sembrò un vecchio tronco sommerso. Poi un grande spruzzo si innalzò, qualcosa partì come un razzo ed attraversò tutta la palude alla velocità di un fuoribordo, lasciando dietro di sé una scia spumeggiante.
Giunto alla riva opposta, centrò in pieno Mario che, tenendo la rete con entrambe le mani, si era da poco calato in acqua.
L’urto fu così potente che il povero Mario venne catapultato fin sopra la riva.
Con il cuore in gola volammo verso il punto di impatto dove Mario, avvolto nella rete insieme a qualcosa di non ben definito, lottava schizzando fango fino ai primi rami degli alberi.
Non potevamo credere ai nostri occhi! Quella cosa che stava improvvisando uno strano balletto nel fango con Mario era proprio il Mostro di Lochness!
Non avevo mai visto nulla di simile, neanche sui libri o alla televisione! Il mostro era lungo circa due metri, aveva un corpo allungato, privo di squame, con una pellaccia bruna ricoperta di muco, la testa massiccia, due paia di lunghi barbigli, occhi piccoli, ma, soprattutto, una bocca enorme con una mascella terribile.
Ero io quello che avrei dovuto vibrare il colpo di grazia. Misi subito lo stupore da parte e tirai fuori il coltellaccio che avevo preso di nascosto dalla cucina della nonna.
Mentre, con molta fatica, i miei amici abbracciavano quella mostruosa, enorme, creatura, tenendola ferma in attesa che calassi il coltello sacrificale, scambiai un’occhiata di intesa con loro e pensai, con orgoglio, a quando saremmo rientrai in paese con quella preda.
Tutti ci avrebbero guardati con meraviglia ed ammirazione! Tutti ci avrebbero rispettati e trattati da uomini! Nessuno ci avrebbe mai più derisi!
Saremmo diventati delle star e, chissà, forse avremmo avuto anche una foto sul giornale!
Pensai alla fatica e ai rischi che avevamo corso per catturare il mostro e mi convinsi che ne era valsa davvero la pena.
Allora, con l’adrenalina che scorreva nelle mie vene come un fiume in piena, alzai finalmente il coltello, tenendo sempre lo sguardo fisso sul mostro che boccheggiava imprigionato nella rete e si dibatteva nel tentativo di divincolarsi, ma subito mi bloccai e pensai a me e a come, invece, laggiù in campagna, durante le vacanze, mi sentissi libero e senza catene, lontano dalla città e dalla scuola.
Tenendo sempre il coltello a mezz’aria scrutai a fondo i suoi piccoli occhi scuri che sembravano volermi dire: “Qualsiasi cosa tu voglia fare, ragazzo, falla in fretta….”.
“Dai, forza! Colpisci!”, urlavano i miei amici ed io pensai alle facce che avrebbero fatto i soliti idioti fuori dal bar quando lo avremmo portato su. Dentro di me immaginai gli urli e gli schiamazzi che sarebbero usciti da quelle bocche così avvezze all’alcool e tanto foderate di superficialità.
Allora pensai che, forse, non ne era valsa davvero la pena. Pensai che non fosse giusto privare della vita un animale così maestoso, che incuteva tutto quel timore. E per cosa poi? Solo per guadagnare l’ammirazione di un gruppo di avvinazzati?
Erano passati solo pochi istanti dalla cattura, ma l’aver realizzato il sogno di una vita non mi entusiasmava più come prima. Mi sembrava, piuttosto, un gesto empio, un sacrilegio, quasi una colpa da espiare e non, invece, un atto sublime e coraggioso di cui vantarsi per l’eternità.
Il coltello stretto nella mia mano tremava come se fosse dotato di vita propria. Le grida di incitamento dei miei amici, che non stavano più nella pelle, rimbombavano per tutta la palude. Guardai di nuovo i loro volti e vi intravidi la gioia di chi, almeno per una volta nella vita, ha visto la moneta cadere dalla parte giusta.
Da qualche parte, nella boscaglia, un uccello iniziò a lanciare il suo richiamo, poi tacque.
Presi un bel respiro e vibrai finalmente il colpo finale.
E tagliai la rete.
“Vai con Dio, amico, e sii libero anche tu!”, urlai, mentre il bestione, con un tonfo impressionante, scompariva nelle profondità della palude lasciando, come ricordo, solo le onde che increspavano l’acqua e agitavano le alghe abbarbicate alla riva.
Rimanemmo lì, fermi, inebetiti, ancora per parecchio tempo. Il sudore ci gelava la faccia e correva in rivoli lungo la schiena.
Il silenzio circostante era rotto solo da un timido alito di brezza che agitava le cime degli alberi e dal battito del cuore che martellava nelle orecchie e pareva volesse volare via dalla gabbia toracica, come un uccello impazzito che sbatte le ali contro le sbarre nel disperato tentativo di fuggire, mentre il respiro correva su e giù, su e giù, a pompare aria ai polmoni ansimanti......
All’improvviso una manina calda si infilò sotto il mio braccio.
“UAO! E’ davvero una bella storia, babbo, ma…dimmi...il mostro esiste ancora?”.
Il ricordo si attenuò sfumando in gocce di sorriso.
“Beh…ecco, è passato tanto di quel tempo…”, risposi a mia figlia, mentre fissavo pensieroso l’acqua stagnante della palude, “Sai, non credo proprio che...”.
Ad un tratto, una bolla d’aria emerse piano piano dall’acqua putrida.
Erano di certo i gas che si formavano sul fondo della palude o, forse, qualche corrente d’acqua sotto la superficie.
Suggestionato dalla storia che avevo appena raccontato pensai, addirittura, che potesse essere Lui.
Non era possibile! Non era possibile che un pesce vivesse così a lungo, ma poi mi venne in mente di aver letto, da qualche parte, che simili bestioni possono anche superare i quaranta anni di età e allora poteva anche essere che… no, non era possibile!
Stavamo per ritornare sui nostri passi quando un’altra bolla d’aria emerse dalle buie profondità fangose. Poi, un forte sciacquio ruppe la piatta uniformità dello specchio d’acqua.
Mia figlia mi tirò per la giacca fin quasi sulla riva e si mise a fissare, ipnotizzata, dall’alto dei suoi sei anni, le onde che increspavano la superficie della pozza.
“Uh! Babbo, guarda! E’ lui...è lui...è il mostro!”, cominciò a gridare, disegnando con la bocca una grande “O” e agitando le manine come se volesse volarsene via.
Strappando alla mia schiena un gemito disperato, mi chinai per guardare meglio. “Ma no!”, le risposi dandole una carezza, “Non è il Mostro! Ecco, vedi, è …è solo un vecchio tronco!”.
Poi presi la bambina per mano e ci dirigemmo in direzione dell’argine dove avevo lasciato le biciclette. Dal fiume saliva un odore umido, il sole rosso diventava enorme, smisurato e ci regalava un tramonto da fiaba. La brezza giocava tra gli alberi e nei capelli e l’aria di fine primavera era dolce e si beveva come un vino.
“Ma, babbo, io però non sono mica tanto sicura che quella cosa là era proprio un legno!”, mi rimproverò, ad un certo punto, mia figlia piantandosi davanti a me con le braccia incrociate.
Rimasi lì, imbambolato senza sapere bene cosa dire perché, effettivamente, quella cosa che avevo visto emergere in superficie non era sembrata un pezzo di legno neanche a me.
Possibile? I miei occhi non erano più quelli di un tempo, o, forse, erano stati traditi da un riflesso di luce che si era fatto strada tra gli alberi. No, quello era proprio un tronco, altro che…!
Però il mio cuore mi diceva che, invece, era proprio Lui.
Era il Mostro di Lochness che, dal fondo della palude, aveva riconosciuto quel bambino che, in un assolato pomeriggio di Luglio di mille anni prima, aveva tenuto per un po’ la sua vita tra le mani, ed era salito in superficie per salutarlo.
Ne sono sicuro perché, prima di rituffarsi per sempre nelle buie profondità, mi aveva lanciato un’ultima occhiata.
Se non fossi così vecchio e stanco giurerei di avere visto un sorriso.



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Opera scritta il 16/03/2021 - 11:05
Da Paolo Guastone
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