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La casa di Elisabeth

Capitolo I Monroe


Un velo notturno appariva all'orizzonte delineando indefinite ombre che scolpivano i tetti
creando un unico colore con il verde brunito delle colline.
Qualche casa guardava l'oceano sfogare il suo cupo impeto sulle scogliere e il panorama andava a degradare gradualmente ai margini d'una baia che era un porto naturale per molte imbarcazioni.
Quelle costruzioni davano l'impressione d'essere poste a guardia di remoti pericoli provenienti dal mare e il faro, arrampicato sulla punta del promontorio, illuminava le tempestose serate come ultimo baluardo delle terre abitate messo lì da una mano divina.
Spesso il vento del nord spirava così forte da sospingere fin sulla strada, che costeggiava il dirupo, alti spruzzi di spuma bianca con maestosi salti sul mare agitato.
Un poeta avrebbe definito quel paesaggio come una rara panacea per la propria scrittura.


«Aria fresca della sera che l'anima inviti a rimaner chiusa in se stessa,
in attesa di calde giornate che mai verranno,
Concedi a un pittore d’inspirare ogni singola nota che il mare emette,
fa che le tele s’intreccino con le mani
divenendo sinossi d’ogni pensiero d’amore.
E mai sia l’esistenza solo banale vissuto
che dipinge ma non incide»


Dell'antico villaggio costruito a ridosso delle scogliere col passare dei secoli era rimasto ben poco, solo sparute case e una strada che portava verso la costa.
Tra queste ve ne era una dall’aria insolita e solitaria.
Aveva un aspetto tradizionale impreziosito da finestre bianche con un tetto di scure tegole d’ardesia e legno decorato con perline d’un blu intenso.
Un piccolo cortile le faceva da cornice e migliaia di asfodeli lo corteggiavano danzando inermi insieme alle onde del mare.
Il suo essere vecchia era in antitesi con il suo aspetto.


«Chissà se il tempo avesse voluto fermarsi in quel posto quanto della melanconica visione dei sogni avrebbe vissuto eternamente accompagnato dalla staticità della vita...
Vi sono luoghi che vivono al margine del pensare, nel non esistere dell'esistenza, nella parvenza d'una strana appartenenza.
In fondo era solo una piccola baia, con un porto e alcune case aggrappate al promontorio che spiava il mare.
Immaginare di farne parte era possibile, eppure quel mondo non bastava per chi sognava un altro surreale universo
Ogni tempo vive il suo tempo e forse anche dei dipinti immaginari possono raccontare storie e vite e quello che ai miei occhi appariva un’immagine avrebbe potuto essere realtà o mondo surreale o qualsiasi altra cosa avessi voluto. Io ero di fronte e forse in me stava nascendo un altro mondo...»


Capitolo II Elisabeth


Una ragazza viveva in quel tempo a Monroe.


«Dove vado sola su questo sentiero?
Riesco ancora a respirare l'aria in questo vento che mi solca il viso?
Riesco ancora a immaginarmi in un altro vivere?
Andrò lontano con le mani protese sull'infinito buio che sembra voler ghermire il cuore.
Andrò dove qualcuno capirà senza chiedere e chiedere sarà inutile perché tutto profumerà di vita e amore.
Esisterà mai per me questo giardino di pace?
Ho vissuto sempre accanto alle storie del passato, non capendo quelle del presente, cercando le mie origini senza mai trovarle, comprendendo dalle mie lacrime il segreto destino che cercavo.
Ma qual era il mio destino? Suonava in me la voce dell'inconscio con note non conosciute, con melodie che rapivano il mio pensare.
Lasciando le ragioni appese al canto del mare che ogni volta cullava il mio dormire.
Sì, Elisabeth riposa nella tua notte, nel tuo sogno.»


Elisabeth Hamilton quando rincasava faceva sempre la stessa strada verso l’imbrunire, volgendosi verso la costa
Il suo lavoro era lo stesso da diversi anni e gli amici si contavano sul palmo d’una mano.
Ecco la sua vita: commessa di giorno in un negozio di stoffe nella vicina Monroe; di notte il sogno rappresentava il suo mondo, la sua ancora di salvezza.
Il passo era svelto, in fondo poche miglia separavano la sua casa dalla piccola cittadina di Monroe.
Un’abitazione che avrebbe voluto vendere per partire verso luoghi più vicini al suo vero mondo,
nulla gli bastava più per essere felice in quel tempo e in quel luogo.
E neppure il lavoro pareva soddisfare la sua reale aspirazione di vita.
Fare la commessa e vivere abbarbicata su un promontorio nebbioso e freddo la faceva sentire imprigionata in un sogno non voluto.
Per paradosso l’unica cosa che adorava era quella stradina che le concedeva il lusso di rimanere sola con i suoi pensieri né troppo a lungo né troppo poco.


Cap. III La casa


La casa di Elisabeth s'affacciava dall’alto direttamente sul mare e la voce dell'oceano spesso filtrava attraverso le finestre, dandole quella compagnia di cui aveva bisogno.
Nessuno l’aspettava, i genitori erano morti da tempo lasciandole come eridatà proprio quell'unica cosa posseduta: una casa in cima al promontorio.
Il tempo pareva sempre essere uguale nel NorthShaffle, ogni giorno in fila, uno dietro l'altro come se la vita non scorresse mai, un tempo vissuto e rivissuto senza tempo.


Quella sera il lavoro era terminato in anticipo, Mr. Benson, il padrone del negozio dove lei lavorava, era andato via nel primo pomeriggio e la baracca aveva chiuso battenti in anticipo sull’orario.
Una sottile foschia saliva dal mare e il biancastro susseguirsi delle nuvole aveva lasciato il posto a ombre soffuse ed eteree che donavano a tutta la piana un aspetto quasi lugubre e sinistro.
Uno strano timore aveva preso l'animo di Elisabeth, per questo la decisione di chiudere bottega andava oltre la paura d'un eventuale rimprovero da parte di mr. Benson, uomo notoriamente dai modi non troppo gentili.
Quel pomeriggio inoltrato la strada sembrava non aver mai fine, Elisabeth non faceva più caso al paesaggio circostante, erano troppe le emozioni che bussavano all'animo per distrarsi in altre visioni.
Il vento andava aumentando d'intensità e il suo viso, pallido e lentigginoso, s’illuminava al freddo e quella fioca luce biancastra la rendeva visibile come una lucciola in un campo di grano durante la notte.
Finalmente il vialetto che portava alla dimora apparve, tra la sempre più fitta nebbia e, come d'incanto, il suo disagio si placò immediatamente.
Quella strada che sempre l’aveva accolta con benevolenza d’un tratto aveva cambiato umore e l’unica cosa che poteva concedere ristoro e protezione sembrava essere quella casa che fino a poco prima aveva quasi odiato.
Tre giri di chiave al nottolino della serratura e il mondo esterno non le apparteneva più.
Via le sneakers viola, al loro posto un paio di comode pantofole, naturalmente dello stesso colore.
Il giaccone nero volò sul divano e indosso comparve il suo comodo maglione a cui non rinunciava mai.
Un paio di uova al prosciutto e una birra scura, questi erano i suoi pensieri più impellenti.
Poi un libro da leggere, qualcosa che sapeva parlare di tutto ciò che era viaggio…


Cap. IV Il tempo


Il tempo fisico, quell’aria stantia era padrone di ogni cosa…


Era impossibile scorgere il mare dalle finestre e il suo rumore non arrivava più sul promontorio.
La nebbia governava ogni cosa ed Elisabeth si sentiva estranea alla natura circostante avendo in sé un refolo di tranquillità donatole dal suo riscoperto rifugio.
Cena consumata in fretta e via sul tappeto accanto al fuoco acceso e da quel momento solo pagine da leggere… poi l’umana stanchezza concesse un sonno senza sonno, profondo come quei sogni che rimangono nell’io incosciente senza mai venire a galla nella mente.


«Se tu urli mare io non posso sentirti,
eppure sei in me più di quanto io abbia mai voluto.
Tu che dal basso mi chiamavi
e io sorda al tuo vociare.
Ora sei silente in questa notte
e nebbia scrive sulle pagine di questo libro
senza che compaia scrittura
o orma d’inchiostro.
Non ho mai veduto le tue spiagge
e nemmeno accarezzato l’irte scogliere
che ti contenevano a fatica.
Sì, tu sei il mio mare, quello dell’infanzia,
culla dei sogni adolescenti
paura e amore per l’ignoto.
Ma dimmi, perché
questa notte non parli?»


Cap. VI Il giorno


Il giorno arrivò senza avvisare penetrando all'interno della casa e svegliando Elisabeth dolcemente.
Lei s’alzò con un senso di benessere ritrovato e spalancò la porta di casa, aveva voglia di respirare
un ritrovato sapore di mare.
Gli occhi chiusi s’aprirono sul vialetto di casa e...
Le abitazione vicine erano scomparse, sul promontorio spiccava solo l’antico faro, ma il suo aspetto era mutato, pareva lucido e maestoso.
L’aria quieta non era più tale e il battito cardiaco cominciava a prendere il posto di ogni sensazione visiva.
Con un balzò tornò dentro casa cercando qualcosa di familiare che potesse calmare quel turbinio di sensazioni, quell’alone di pazzia che aveva preso il posto del pensare razionale.
Cercò il libro che stava leggendo la sera prima, senza trovarlo.
Eppure avrebbe dovuto esser sul tappeto accanto al camino.
Vagò per un po' in tondo poi il desiderio di razionalità, per un attimo, riportò la calma. Prese in fretta qualcosa da mettere indosso, chiuse alle spalle la sua porta e corse verso Monroe al negozio di Mr. Benson.


Cap. VII Una nuova realtà


Elisabeth corse a perdifiato verso Monroe finché ne aveva e quegli alberi rinsecchiti che solitamente erano a fianco della strada non c’erano più, al loro posto piante giovani e rigogliose.
L’asfalto rovinato della stradina era scomparso sotto le scarpe e solo un ciottolato polveroso e sconnesso faceva da guida ai passi.


«Cosa accade?
Mi ritrovo sul far dell'alba su questa strada, in questa mattina senza spiegazioni.
Immersa nel limbo delle ore, da dove viene questo mio pensare?
Dovrò tenerlo stretto a me, mi daranno della pazza.
E questa luce soffusa che sale imperscrutabile?
Ho paura! Dove sono? Vorrei tornare indietro ma devo proseguire.
Confusione...
Mi fermerò per ascoltare i battiti del cuore che salgono.
Oramai non trovo traccia del mio volere.
Dio mio impazzisco!
Sento risvegliare le mie emozioni ed esse mi scrutano senza parlare, come qualcuno che ti sorride con un velo che nasconde il viso.
Questa strada con la sua ombra mi ghermisce, tenendomi compagnia.
Quella è… Monroe».


Monroe era sempre lì eppure non era la solita cittadina.
Poche case, strade molto strette, banchetti di pesce, insegne di taverne e tutt’intorno un olezzo melmoso che fuoriusciva da canali a cielo aperto.
Elisabeth con passo titubante s’affacciò su un piccolo slargo dove una chiesetta con il campanile dominava la vista.
Una voce forte e tuonante riecheggiava nell'aria venendo fuori come un fulmine dalla porta aperta
della chiesa.
Era quella di un pastore che, dall’alto d’un pulpito di legno di quercia, sbraitava contro tutto e tutti
e nessuno osava far volare favella che fosse una.
Quell'uomo, vestito di nero, aveva un grosso colletto bianco che veniva fuori dalla camicia, dei calzini sdruciti che coprivano fin sopra alle ginocchia i pantaloni e scolorite scarpe dotate di enormi fibbie di ferro ai lati.
Elisabeth, attratta dall’angoscia e da quelle urla, affrettò il passo verso quel frastuono e infilò la testa dentro...
Il suo sguardo allucinato fu subito notato da tutti i presenti che all’unisono si voltarono verso di lei.
Il pastore, con le vene del collo e della testa tronfie e gonfie come delle canne di bambù, interruppe il sermone e rivolgendosi a lei disse: «È questa l'ora di presentarsi alla funzione ragazza? Dove sono i tuoi genitori? Mettiti a sedere lì, indicando con l’indice ricurvo una panca vuota, e ringrazia il cielo che oggi sono di buon umore, ma guarda se questo è il modo di entrare nella casa di Dio!».
Poi, come se nulla fosse accaduto, con un grugno terribile a incorniciare il rugoso volto, riprese il suo discorso, scagliandosi contro chi osava andare in mare senza avere per esso e per le creature che lo popolavano il dovuto rispetto e ogni azione riconduceva senza ombra di dubbio al giudizio divino universale.
Elisabeth, seduta in silenzio, non proferì alcun fiato.


Cap. VIII Il tempo inverso


Il disorientamento di Elisabeth era tale che non s’era nemmeno accorta di indossare un vestitino grigio, delle scarpe nere e un fazzoletto abbarbicato tra la testa e il collo.
L'assurdo l’aveva rapita?
Ogni aspetto della sua vita, anche quello della quotidianità, era stato violentato da un tempo che non era quello vissuto e non era nemmeno quello immaginato nei tanti sogni notturni.
Finita la funzione religiosa tutti uscirono fuori in rigoroso e silenzioso ordine e ognuno si diresse verso i propri doveri, Elisabeth si accodò alla fila.
Forse l’ambiente aveva avuto un effetto narcotizzante su di lei, fatto sta che un senso di pace le aveva riacceso il pensiero ed esso spedito, cercando ragioni e spiegazioni, era volato ai vecchi racconti su Monroe che suo padre le raccontava da bambina per farla addormentare.


«E il mare sarà la tua casa ma essa non ti trascinerà in avventure, tu dovrai seguire il sentiero che dal tempo è segnato e nessuno può sfuggire al percorso che porta al paese.
Troverai volti sconosciuti e conoscerai nuovi volti e le navi andranno lontano senza partire e i moli non saluteranno le vele eppure le balene avranno ancora spruzzi da sollevare. Segui il tuo sentiero Elisabeth e ora dormi, dormi piccola mia...»


Cap. IX Un vecchio racconto e una certezza


Monroe nel 1800 aveva un porto dal quale partivano molte baleniere verso le acque del nord Atlantico o degli oceani del sud.
I racconti del mare inondavano le taverne ed essi erano tramandati oralmente da padre in figlio.
La mente di Elisabeth aveva finalmente captato l’argano che muove il tempo, la storia che l’aveva rapita senza lasciarle fiato per gridare, senza logica per scrivere lei stessa spiegazioni e spesso
ciò che non spiega conquista.
Certezze?
Sì, lei si trovava in quell’istante senza istante nella vecchia Monroe di due secoli prima, e nessuno avrebbe mai potuto dire che a volte il tempo non fa il tempo.
La mente e le immagini si aprivano verso le braccia del padre ed Elisabeth si ritrovava tra quelle braccia forti e vigorose e insieme erano seduti accanto al camino e la voce raccontava e raccontava e raccontava…
I sogni e le avventure prendevano vita in un mondo surreale e i racconti si mischiavano al fumo del camino e queste realtà raccontate un giorno sarebbero divenute realtà vissute.
V’era una storia particolarmente cara a lei che, più delle altre, aveva preso sicura dimora nel suo animo.
Essa parlava di un veliero dal nome “Queen's Flower”.
Vascello trealberi della reale marina inglese, trasformato in baleniera, aveva sulla chiglia, aggrappata alla prua, la statua d'una sirena che dalle onde sorgeva con la sua bellezza a incantare i marinai.
Completamente adornato da fregi d'argento, il cassero arrivava baldanzoso a guardare l'albero di mezza della nave.
Il castello di poppa invece era snello ed elegante, completato da legni finemente intarsiati. La sua bellezza contrastava con il forte e inconfondibile odore del grasso delle balene che, salendo dalla stiva, impregnava tutto, quando veniva fuso.
Nel giugno del 1815 il vascello era partito per la caccia dirigendosi verso Capo Horn, nel Pacifico del sud, ma per misteriose ragioni non aveva più fatto ritorno nel porto di Monroe.
Imbarcato a bordo della Queen's Flower v'era un ragazzo dai modi gentili e garbati che poco si adattavano alla natura dell'incarico.
Si chiamava Peter Johnston ed era il secondo di bordo del capitano Jeff Brown.
Aveva preso la via del mare lasciando la bottega di stoffe dove lavorava, in cerca d'una vita avventurosa e più redditizia.
Il padrone del negozio, un certo Mr. Hamilton, a malincuore l'aveva lasciato andar via, proprio per quei suoi modi così rispettosi che ne facevano una persona unica.
Inoltre il buon Hamilton, dopo la morte improvvisa dei genitori di Peter, se ne era preso cura ospitandolo nella sua casa, non avendo egli più alcun parente da cui stare.
Le storie sugli oceani tempestosi vicino alla terra del fuoco ai confini del mondo e gli incredibili racconti dei marinai che erano riusciti a superare Capo Horn, da sempre avevano affascinato Peter a tal punto da indurlo a imbarcarsi su di una baleniera diretta proprio verso quelle acque.
La bellezza di quella nave, il mistero dell'ignoto, la forza incredibile del mare e infine la figura di quel giovanotto, che tutti in quell'epoca conoscevano a Monroe per i suoi modi così raffinati, erano entrati nel cuore di quella ragazza solitaria e sognante.


Capitoli I-IX
Nella prossima pubblicazione gli ultimi capitoli di questo mini romanzo




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Racconto scritto il 17/05/2022 - 19:56
Da Jean Charles G.
Letta n.356 volte.
Voto:
su 3 votanti


Commenti


Grazie Anna un caro saluto

Jean C. G. 22/05/2022 - 00:10

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Ammirata dalla tua indiscutibile bravura nel narrare una storia tra sogno e realtà impreziosita da versi soavi...complimenti e attendo la prossima pubblicazione. Ciao

Anna Rossi 19/05/2022 - 02:59

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Racconto e poesia a corollario di una fantastica e avvincente storia, trascina il lettore lasciandolo col fiato sospeso fino a giungere all'epilogo che attendiamo con ansia crescente, complimenti Jean!

genoveffa genè frau 18/05/2022 - 10:42

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Bellissimo racconto in attesa del prossimo.
Buona continuazione

ziofrank storie del gufo 18/05/2022 - 08:51

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Grazie di cuore Mirko, cerchiamo tutti con le nostre scritture di dare onore e buon credito a questo bel sito, con umiltà e passione.
Non disturbi affatto Marina sono abituato ai forum e alla condivisione di idee che molto mi ha aiutato a crescere e la crescita dura tutta una vita per chi ama la scrittura.

Jean C. G. 18/05/2022 - 08:27

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"La casa di Elisabeth" è ciò che chi ama la scrittura vorrebbe scrivere, è quello che il lettore si augura di poter leggere... rimando i miei complimenti dopo i prossimi capitoli

Mirko D. Mastro 18/05/2022 - 04:20

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Comprendo benissimo e condivido quanto affermi.
Io sono una persona umile e semplice, malinconica e solitaria, che ama moltissimo leggere - e commentare - gli altri. Condividere è fondamentale per crescere.
In famiglia sono stata e sostanzialmente sono ignorata, tranne quando ho ricevuto dei riconoscimenti. Questo poco importa.
Sono 10 anni che pubblico e ho letto tanti buoni autori e qualche fuoriclasse.Ma anche tante persone di buoni sentimenti e principi, e in tutti ho cercato di cogliere il buono e il bello che offrivano.Sempre.
Quello che non ho imparato è valutare,
passami il termine, ciò che scrivo.
Nel 2014 proprio qui sono stata subito "premiata" con una poesia piccolissima che io ritengo tuttora banale...
ma in fondo è meglio così, io cerco condivisione ed emozioni... e di continuare, nel mio piccolo, a migliorare.
Temo di averti annoiato sin troppo e mi scuso, tu hai tanto da donare.
Grazie di tutto, serena notte a te, Jean
Alla prossima!

Marina Assanti 17/05/2022 - 23:35

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Grazie di cuore Marina capisco gli occhi ne so qualcosa... Vedi ognuno di noi ha un talento e un'anima che pulsa per essere compresa all'esterno. Queste due componenti rendono ogni scrittura pregna e foriera di condivisioni interiori. L'assimilare ogni forma di condivisione arricchisce ognuno di noi e lo stimola a migliorarsi. Mai tralasciare l'umiltà di capire e comprendere gli altri se fossimo solo egoismo personale d'esser letti commetteremmo un grosso errore. Ogni cosa ha un suo posto e limite. Tutto va ponderato con auto critica e coscienza. La cosa più saggia nella scrittura è imparare da critica ed errori. L'edonismo in chi scrive è normale ma tutto deve essere racchiuso nei termini più giusti. Colui che è capace di autoironia e autocritica ha una marcia in più. Ti auguro una serena notte

Jean C. G. 17/05/2022 - 22:49

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E 5*... il massimo consentito!

Marina Assanti 17/05/2022 - 21:28

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Quanta poesia...
Ce l'ho fatta a leggere tutta questa parte in una volta - mannaggia ai miei occhi - perché hai uno stile magnetico, che attira e cattura, trasportando il lettore nella dimensione da te immaginata.
Ho provato inquietudine come la protagonista, smarrimento, ansia... e curiosità per come andrà a finire.
Ma come fa uno scrittore del tuo talento e spessore a così ben commentare le mie piccoline?
Spero di imparare più di qualcosa da te, Jean sei un narratore eccezionale.
Complimenti!
Un caro saluto, attendo...
Ciao, buona serata,
Marina

Marina Assanti 17/05/2022 - 21:27

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