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Capitolo 2. Riflessioni sul passato e l'entrata in Accademia ( Tratto da ANASTASIA, la Donna in Nero

Ormai abitavo in questo appartamento a Milano da almeno tre settimane, ero arrivato qui il quattordici di settembre nel tardo pomeriggio e partendo da Firenze di mattina presto. Ero venuto qua molto prima perché le mie intenzioni erano quelle di abituarmi subito alla solitudine e anche perché ero stufo di vivere con Lucius, mio nonno. Persino mia sorella più piccola, Laura, ormai viveva sola, a Londra, da due anni e lei ne aveva solo ventidue cioè quattro meno di me. Fino all'ultimo mio nonno aveva tentato di ostacolarmi, di impedirmi di andare all'Accademia di Brera e sopratutto di vivere a Milano. Di sicuro voi starete pensando al motivo che probabilmente poteva essere la lontananza o la difficoltà con cui Lucius avrebbe dovuto affrontare la mia assenza. Ma invece, sotto quella stupida apparenza affettiva, c'era qualcos'altro e molto più losco, ma preferisco parlarne di seguito. Ogni cosa a suo tempo.


Ero venuto prima anche perché per entrare all'accademia era necessario superare un test d'ammissione che si sarebbe svolto due giorni dopo. Fortunatamente, anche se non avevo studiato le arti come si deve, a casa avevo accumulato una collezione di libri su tale argomento e ciò che avevo letto in quegli anni me le ero ricordato alla perfezione e, molte volte, ero riuscito a trasformare la teoria in pratica. Comunque ce l'avevo fatta, avevo passato quell'ostacolo e, fra i cinquanta che ebbero la stessa dose di fortuna, l'avevo superato come quinto. Non male dal momento che non avevo avuto la fortuna di poter sperimentare sempre, a parte le basi. Ora potevo entrare e sviluppare il tutto, affrontare anche la pratica e perfezionarmi al massimo che potevo, anzi andare oltre i miei stessi limiti, come dicevo sempre.


Come scienziato e come visionario, sono sempre stato convinto che i limiti non esistano e se un uomo avesse il coraggio e l'ambizione di soffermarsi e di comprendere e di aprire ancor più la mente, metaforicamente parlando sarebbe come far due passi in avanti anziché uno, e raggiungere la fase finale della sua evoluzione, ovvero la metamorfosi da uomo a dio. Io, come uomo senza alcun credo religioso e senza alcun dogma politico o filosofico, confido nel genio della mente umana e nelle mie capacità di logica e ragionamento unite alla volontà di esplorare, scoprire e vedere all'infuori dell'invisibile e di coloro che seguono gli impulsi e il caso. Anche se un dio dovesse esistere, non mi piegherei ai suoi voleri, a costo di perdere la mia lucidità mentale andrei avanti e disobbedirei ai suoi comandamenti per distruggere la mia ignoranza e andare, vedere, creare qualcosa che vada oltre i limiti imposti dal dio e, alla fine, essere il nuovo Messia, un superuomo che mostra il cammino verso il nuovo mondo, verso il futuro. Senza questa esperienza, io non avrei mai potuto credere che questa mia visione si sarebbe avverata.


La mattina del sei ottobre mi alzai prestissimo, verso le cinque e mezza, in tempo per vedere l'alba apparire ed espandere il suo fioco bagliore sulla città di Milano. Dopo aver rifatto il letto ed aver sistemato e pettinato la mia coda di cavallo ( si...ho i capelli lunghi), mi recai in cucina per far colazione con la mia marmellata preferita ai frutti di bosco, preparata personalmente qualche settimana prima, e la spalmai sul pane biscottato. Odio fare la colazione al bar perché non mi fido dei loro prodotti e inoltre, non per vantarmi, ma io posseggo una particolare capacità sensoriale del gusto che mi permette di capire immediatamente se un qualsiasi prodotto alimentare sia stato fatto in casa o se invece è di scarsa qualità, anche se non mi servirebbe nemmeno perché lo capirei già dal tatto e dalla vista. Quando faccio la spesa non mi piace comprare tutto ciò che è già pronto, preferisco comprare la materia prima così da poterla esaminare al mio microscopio per vedere se rispetta i parametri della sicurezza. Insieme a quella marmellata io, con la poca forza che avevo appena acquisito dal mio primo pasto, presi e spremetti cinque arance e lasciai che il succo cadesse nel bicchiere e lo bevvi senza mettere lo zucchero.


Dopo essermi lavato, tornai nella mia stanza per vestirmi, non fu difficile scegliere dal momento che ho l'abitudine di lasciare i vestiti selezionati su una sedia vicino al letto, almeno così non devo restare un'infinità di tempo con la testa nell'armadio per decidermi. Indossai così la mia camicia bianca e la mia cravatta bordeaux, assieme ai miei pantaloni neri. Prima di andarmene, mi sedetti nuovamente sul letto e puntai il mio sguardo verso il comò, dove vi era una fotografia scattata venti anni fa, protetta da un sottile strato di vetro e da una cornice di mogano. Quella foto era molto importante per me, perché in essa vi era l'ultimo ricordo che avevo della mia famiglia unita, vi erano infatti mia madre Susan White, dai capelli lunghi e castani e gli occhi azzurri e sul collo quel suo profumo lavanda, mio padre Robert Mazzini, figlio di un immigrato italiano della Toscana, forte e rigido ma non abusante, mia sorella Laura che vive a Londra, e mio fratello maggiore Archibald. Era l'unico ricordo rimasto di loro ( a parte Laura, che invece mi telefonava spesso) e mi permetteva di ricordare i loro volti, i loro nomi, la mia vita prima della loro scomparsa.


Non erano più in questo mondo da molto tempo, da vent'anni. Persi i miei genitori e mio fratello maggiore all'età di dieci anni, la sera del tredici aprile del 1994. Ero insieme a mia sorella a guardare la televisione quando Lucius, mio nonno, chiamò al telefono fisso di casa alle ore 23.12, risposi io e sentii dall'altro lato della cornetta un'aria deprimente e Lucius che faticava a parlare, e questo insospettii. Quando lui mi comunicò che la mia famiglia non era più tra noi, io caddi nella tristezza e nella disperazione, piangendo e abbracciando mia sorella. Successivamente, gli chiesi  come fossero morti ed è proprio da lì che cominciai ad avere dei dubbi. Mio nonno mi disse che se n'erano andati perché mio padre aveva perso il controllo del veicolo finendo così, fuori dal guard rail, facendolo ribaltare, e dall'autopsia era stato confermato che mio padre aveva assunto alcol fuori dalla norma, prima di mettersi alla guida.


Quando mi disse queste cose...io non gli credetti, di fatto non gli ho mai creduto. Fu da quel momento che il mio cervello venne martellato da un'infinita di domande senza risposta, chiedendomi il motivo per cui egli mi stava mentendo e questo non fece altro che incrinare di un po il nostro rapporto e sospettai fin da principio che mi stesse nascondendo qualcosa, anche perché non vi fu alcuna notizia riportata sul giornale o sui media televisivi.


Anche se a quell'epoca avevo solo dieci anni, avevo già acquisito una capacità di memoria dal momento che conoscevo molto bene le abitudini di mio padre e ciò che era successo prima di quell'incidente. Ho ereditato da lui il vizio del fumo, infatti egli fumava due volte al giorno, precisamente la mattina alle 11.00 e il pomeriggio alle 17.00, due tipi di sigaro: il Montecristo, il suo preferito, al mattino e il Moro, di punta fra i toscani, di pomeriggio. Soltanto di sabato mio padre fumava anche una terza volta e di notte, con il Bolivar, molto apprezzato fra i sigari cubani tuttavia aveva una versione taroccata di quei sigari a causa del monopolio statale a Cuba ( di fatto provenivano da uno stabilimento negli Stati Uniti, a New Orleans). Questo era il suo unico vizio, quello di fumare, ma mai aveva osato toccare un bicchiere contenente qualcosa di alcolico, lui era sempre stato attento a restare lucido e, da quando un suo parente era morto per cirrosi epatica, a vent'anni, aveva smesso completamente di bere.


Un'altra cosa che mi insospettii fu che mio nonno aveva menzionato una macchina che era uscita dal guard rail. Io mi chiesi di quale macchina stesse parlando, dal momento che quella di mio padre aveva subito un guasto alla freccia destra tre giorni prima a causa di un atto di vandalismo e quindi era in fase di riparazione dal meccanico, inoltre mia madre non ne aveva mai avuta una e quella di mio fratello Archibald era chiusa in garage. Inoltre scartai l'ipotesi che mio nonno gli avrebbe potuto prestare la sua, dal momento che prima abitavamo negli Stati Uniti e che mio nonno, una settimana prima era venuto in aereo da Firenze, dove viveva ormai da molto tempo. Quel giorno sarebbero dovuti andare a ritirare l'assicurazione del veicolo e avevano preso un mezzo pubblico, ricordavo a memoria questi dettagli e fin troppo bene.


Perché mi aveva mentito così? Che cosa mi stava nascondendo? Credevi che io fossi così stupido da non sapere queste cose, Lucius? Centravi forse qualcosa con questo mistero irrisolto? Come mai c'era una così tale assenza di prove da navigare nel buio più completo? Queste erano le domande a cui non riuscivo proprio a dare una risposta, malgrado fossi riuscito da solo a smascherare queste patetiche bugie, e di sicuro non le disse per proteggermi da qualcosa, anzi probabilmente era in corso qualcosa di più serio dal momento che uno degli assistenti del medico ribadii che la morte non era stata provocata da uno schianto. Sette giorni dopo anche quel povero assistente venne trovato morto annegato nei pressi di un fiume.


Pensai a quelle domande che mi ponevo da sempre, anche in quel momento, mentre sfiorai lentamente come una carezza, la cornice in legno e poi il vetro della fotografia, fino a quando non la staccai e osservai quel piccolo pezzo di carta, raffigurante la mia famiglia, sulla mia mano per poi dargli un fugace bacio e rimetterlo al suo posto. Alla fine serrai l'uscio dell'appartamento.


Dal momento che a me non piace usare la metropolitana o altri mezzi pubblici per spostarmi, ad eccezione dei treni quando ne ho bisogno, sono propenso a camminare o usare la bicicletta e questo era di fatto uno di quei giorni. Scesi in garage e dopo averla trovata, tolsi la catenina, salii sopra e cominciai a pedalare prendendo così aria e facendo anche un po di moto addentrandomi nel quotidiano traffico cittadino che dominava già nella città.


Pedalai per mezz'ora fermandomi solo per qualche secondo sul marciapiede per aggiustarmi sul viso gli occhiali, il motivo era che stavo andando controvento e, di tanto in tanto, qualche granello di polvere si posava sulle lenti. Raggiunsi e sorpassai la piazza centrale della città, dando un veloce e fugace sguardo al Duomo in stile tardo gotico che domina sulla città intera e mi affrettai a raggiungere l'Accademia, dopodiché cercai un parcheggio e, una volta trovato, inserii il codice della catenina della mia bicicletta e me ne andai sicuro di me. Vi confido che, anche se non l'avessi chiusa con quella catena, nessuno me l'avrebbe rubata. Per precauzione, infatti, una volta comprata io avevo applicato sui tubi una speciale vernice scura, la cui tonalità di colore ricordava similarmente quello della ruggine; chiunque fosse passato e avesse avuto cattive intenzioni si sarebbe fatto ingannare dalle apparenze e avrebbe pensato, come io volevo fare intendere, che fosse obsoleta e che non fosse altro che un vecchio catorcio da far rottamare e quindi di poco valore, ma in verità l'avevo comprata solo un mese fa.


Prima di entrare, io mi precipitai al più vicino tabacchino per comprare un altro accendino ed ebbi la fortuna di poter comprare il numero recente del Corriere della Sera. Non ebbi tempo di leggerlo il giorno prima, ero impegnato a studiare sodo. Non mi ritengo un abitudinario ma per me è necessario dedicare un po di tempo alla lettura del Corriere, così lo posai nello zaino promettendomi che l'avrei letto dopo essere entrato in aula, in attesa dell'arrivo del professore. Entrai nell'Accademia e richiamai la mia attenzione nell'interno di essa.


Vi era moltissima confusione fra nuovi arrivati, studenti più anziani e associazioni studentesche che facevano da “sindacato” per matricole e che si davano da fare per i loro stupidi e infantili programmi politici di destra o sinistra, illudendosi davvero di poterli aiutare ma ai miei occhi parve che soffrissero di un deficit dell'attenzione, oltre che una grande e sfrenata ipocrisia di sfruttatori che provocò in me di una sensazione di ribrezzo oltre che disgusto.


Quelle opere d'arte che in quel momento ebbi l'occasione di vedere mi diedero un motivo per sorridere, dal momento che finalmente avevo la possibilità di far parte del mondo che, fino a qualche tempo fa, avrei solo potuto imitare e immaginare: quello artistico, la ricerca della bellezza e dell'armonia. Vi giuro che riuscii a fatica a trattenere il mio nervosismo e la mia curiosità e guardandomi attorno, potetti notare quali meraviglie artistiche vi erano per poi permettermi di sognare ad occhi aperti e immaginare di poter creare e interpretare il tutto e di creare un mondo nuovo, come fossi un dio. Creare arte, creare emozioni o anche il nulla, creare il dubbio, creare la vita e la morte, l'ordine e il soqquadro, l'equilibrio e la sua distruzione, creare il tutto...su tela.


La prima lezione fu quella di pittura e riuscii a trovare l'aula, così entrai e mi sedetti al terzo posto nella terzultima fila, e già stavo per prendere il giornale per poter leggere quando, ad un tratto il professore entrò e fui costretto a rimetterlo nello zaino. Dopo essersi seduto, senza neanche salutare, egli prese il foglio delle presenze, una delle cose che odio di più al mondo, e cominciò ( come i bambini all'asilo) a fare l'appello. Tuttavia, mentre egli procedeva a ritmo di vecchio trattore di campagna, mi persi un'altra volta nei miei pensieri e, cambiando idea sul rimettere apposto il giornale, lo tirai fuori nuovamente e lo posai sulle mie ginocchia, nessuno mi guardò. Perché questa ossessione? Fra poco lo saprete.


Ero così perso nei miei pensieri che non mi accorsi assolutamente che il professore mi aveva chiamato per la terza volta di fila, infatti lo fece nuovamente ma con un tono più deciso – Mazzini! -
Alzai la mano e gridai – Presente! - Finalmente, non mi sentiva? -
Mi inventai una scusa – No, professore, la sento benissimo. Stavo solo cercando la mia penna perché credevo di averla perduta. -
- Come mai sta in terzultima fila e per di più da solo? -
Che domanda. Semplicemente volevo stare da solo, ma non potetti dare una risposta simile – Perché c'è la finestra aperta. -
Non disse nient'altro e, senza più un secondo da perdere, egli cominciò a introdurre in maniera sbrigativa il corso di pittura con una breve presentazione e con l'assegnazione delle prime fonti,  applicai la modalità di registrazione vocale sul cellulare in modo che non potessi dimenticare una singola parola, mentre con la mano sinistra ( sono mancino) fui costretto a scrivere il mio nome su quello stupido, patetico foglio delle presenze: Alan James Mazzini.




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Opera scritta il 05/05/2019 - 14:06
Da Claudio Renna
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Commenti


Più che altro mi sono ricordato di una fissazione della professoressa mia all'Università, cioè prima faceva l'appello e poi non contenta faceva mettere le firme...boh, non so ancora perché, e infatti è messo apposta per far comprendere l'assurdità

Monsieur Noir 05/05/2019 - 23:47

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Più che altro mi sono ricordato di una fissazione della professoressa mia all'Università, cioè prima faceva l'appello e poi non contenta faceva mettere le firme...boh, non so ancora perché, e infatti è messo apposta per far comprendere l'assurdità

Monsieur Noir 05/05/2019 - 23:45

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Ho trovato un netto miglioramento nello stile rispetto al primo capitolo. Molto più interessante, molto più accattivante, stavolta l'attenzione resta viva. Per un gusto mio, non mi piace leggere nei racconti o nei romanzi le frasi dentro le parentesi, secondo me si addicono di più ad una lettera o ad un resoconto. Solo una domanda: perchè dopo che il prof ha fatto l'appello il protagonista deve mettere la firma sul foglio presenze? Uno mi sembra che escluda l'altro, o no? Ciao e complimenti!

Seby Flavio Gulisano 05/05/2019 - 22:56

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