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Sogno di ghiaccio antico

Con questo racconto (lunghetto, mettetevi comodi oppure passate ad altro), mi presento in questa comunità di appassionati della scrittura. Grazie a tutti per letture, commenti e, ovviamente, critiche.
Orso



Ancora pochi passi e il bosco di larici era alle mie spalle, appena più in basso.
Qua e là, dove il terreno volgeva a nord, aspro e perennemente ombroso, chiazze di neve crostosa ricordavano che l'inverno non era trascorso da molto. Eppure, il pascolo appariva già punteggiato dal croco e dai primi tarassachi.
Dall'alto, nel silenzio del canto degli uccelli e del fruscio del vento, giungeva a tratti lo schiocco del ghiacciaio, quel suono secco e scrosciante che si fa quasi tuono rimbalzando tra le pareti rocciose.
Mi aggiustai sulle spalle lo zaino leggero e ripresi a salire, aggirando le rocce e attraversando i numerosi ruscelli che cantavano per chiunque fosse disposto ad ascoltare. Superai i canaloni ombrosi, dove i nevai stillavano lentamente, immolandosi al sole per donare l'acqua alle fioriture di primavera. Infine, dopo molti passi faticosi, giunsi ai piedi dall'antico gigante dai riflessi azzurrini, immobile solo in apparenza.
Perché il ghiacciaio è vivo; scivola lento nei valloni con tutta la forza della creazione, incide e spacca la roccia, sospinge i massi come fossero mandrie di strani camosci; poi, alla fine del viaggio, raggiunge il fronte.
Là forma una parete abbagliante, verticale, interrotta da larghe fenditure che poi si aprono, diventano crepacci le cui fragili pareti si spezzano, cadono a schegge, a costoni e finalmente ritornano tra le braccia di madre acqua, per morirvi con un ultimo fremito di gocce lucenti.
Così, dove termina il ghiacciaio, si forma uno specchio grigio, continuamente mosso dal precipitare di spezzoni e rocce, mentre piccole isole in dissoluzione ondeggiano sulla superficie, sospinte dal capriccio dei venti.
Dopo aver superato l'ultima salita, mi fermai, rapito da quello spettacolo che pure avevo già visto altre volte.
"C'è qualcosa di nuovo, oggi nel sole, anzi d'antico". Una reminiscenza scolastica mi venne alle labbra spontaneamente. C'era effettivamente un ché d’indefinibile in quella visione senza tempo.
Respirai a lungo i sentori del ghiaccio e dell'aria finissima, mentre il ritmo del cuore e dei polmoni rallentava senza fretta, a ricordarmi che l'età esige il suo pedaggio.
Provavo una strana inquietudine, insinuata in me dall’inizio del cammino, come vi fosse qualcosa di sospeso, qualcosa che poteva accadere.
Un poco turbato, ripresi a camminare sulla riva morenica, verde di bassa vegetazione e pini mughi, alla ricerca del luogo asciutto e riparato dal vento che ben ricordavo.
Era quello un piccolo seno del lago dove, millenni prima, una roccia appiattita, scivolando e rimbalzando giù dal crinale, si era arrestata, quasi la montagna avesse voluto offrire uno spazio di rude comodità per il riposo di chi vi si fosse inerpicato.
La trovai, mi liberai dello zaino e indossai indumenti asciutti al posto di quelli fradici per il sudore della salita. Infine mi sdraiai, godendomi il sole come una lucertola bisognosa di scaldare il sangue alla prima uscita dopo l'inverno.
Silenzio.
Il volo di un'aquila.
Lo sciacquio tra le pietre.
Un rumore secco, poi il tonfo del ghiaccio.
Forse le ombre sfuggenti degli stambecchi, lassù tra le rocce.
Di nuovo mi posi la domanda di come fosse nato quel nome, “Lago della Battaglia”, e chi mai fosse arrivato sin là per corrompere con l'odio e col sangue quel tempio della natura.
Osservando e ascoltando, mi pareva impossibile concepire eserciti, o anche soltanto manipoli di uomini armati alla meglio, inerpicarsi ansimando d’odio e fatica per darsi la morte tra il ghiaccio eterno e le vette ostili che, perdendosi tra le nubi, dovrebbero annichilire qualsiasi uomo e qualunque sua superbia.
Subito compresi il mio errore: in realtà l’essere umano è capace di questo e ben altro.
Mi era tornata alla mente l’immagine di una casa nella campagna, tra spighe e vigneti; all’interno, me stesso bambino, seduto e attento; in piedi, una donna anziana dal volto scavato che stringeva tra le mani pochi fogli, consunti dalle troppe letture e dalle lacrime che li avevano bagnati.
La nonna, gli occhi umidi, mi leggeva brani delle ultime lettere di suo marito, partito per la Grande Guerra col cappello degli Alpini, un medaglione con la fotografia di mio padre, dì due anni, e la speranza di un ritorno entro pochi mesi.
Quelle lettere, accorate e attraversate da un cupo presagio, raccontavano come sulle montagne, anche le più aspre, issarono i cannoni, scavarono trincee, e per farlo costruirono strade tagliando pareti inviolate, forarono le rocce emerse dai mari primordiali, montarono lunghe scale a scavalcare dirupi e nevai eterni. Da quelle cime trasformate in fortilizi, spararono, uccisero e furono uccisi, tanto che i nevai si arrossarono non più soltanto per la luce del tramonto.
Narravano pure di quelle stesse vette che, rese inespugnabili, furono scavate dai nemici sino a porre tremendi ordigni nelle loro viscere. Poi le micce furono accese e le esplosioni violentarono e sfregiarono per sempre le cime.
Esse, martoriate, spianate, con i loro resti strinsero in un abbraccio feroce e vendicativo migliaia di difensori senza via di scampo.
Infine la nonna mi leggeva le scarne, retoriche parole di un’altra lettera: la informava di come suo marito fosse considerato disperso, probabilmente caduto durante una delle tante azioni tra i ghiacci della Regina, la Marmolada.
Nonostante il tiepido sole, un brivido mi percorse al ricordo della cerimonia di pochi anni prima.
Vessilli, canti, politici tronfi e generali dall’aria severa, per la solenne sepoltura del corpo di un Alpino rilasciato dalla ritirata del ghiacciaio.
Quel giorno, invitato d’onore, mi consegnarono un consunto medaglione con una fotografia non del tutto sbiadita poi, alla chiusura della bara avvolta dal tricolore, vidi l’impossibile: la mummia annerita, eppure riconoscibile, di un uomo rimasto giovane per tutti quei decenni, molto più giovane di quanto non fossi io, suo nipote che, diviso tra il raccapriccio e la commozione, lo stavo osservando.
Ma non era certo quella l’eterna giovinezza vagheggiata da poeti e alchimisti; si trattava piuttosto di una macabra beffa che la Nera Signora giocava agli uomini, per rammentarne la loro follia pervicace, che non conosce ostacoli, che non si lascia intimidire né dagli Dei né dalla natura.
Abbandonai i ricordi e, tornato alla realtà, conclusi che pure il luogo dove mi trovavo, in apparenza inviolato e inviolabile ma dal nome marziale, poteva essere stato teatro di qualsiasi evento, compresa una sanguinosa battaglia.
Questi pensieri sì affollavano nella mente mentre la stanchezza, il mormorio delle acque e il fruscio del vento mi facevano chiudere gli occhi.
Ben presto, la testa appoggiata sullo zaino, caddi in quello strano stato di torpore, o forse di vigile alterazione della coscienza, dove il sonno ancora non chiude la porta alle sensazioni del mondo, ma i sogni s’infiltrano silenziosi tra i pensieri.
Un'altra persona percorreva il sentiero sulla riva.
C'era solo una parola che poteva definirla al suo apparire: guerriero.
L'elmo di cuoio indurito, la spada forgiata nel ferro, lo stesso metallo della cotta di maglia indossata sulla lunga tunica di lana grezza. I calzari, di pelle come lo scudo rotondo e rinforzato di borchie. Lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle a incorniciare una barba chiara e un volto duro. E gli occhi, dello stesso freddo colore dell'acqua e del cielo.
Il guerriero si fermò sulla sponda, osservando il lago, dove un pesce, in un guizzo di scaglie lucenti, afferrò una libellula in volo. Ristette immobile sino a quando i cerchi s’infransero sulla riva con un lieve sciacquio, poi si volse verso di me, rimasto impietrito come la roccia sulla quale ero ancora disteso, e mi parlò.
«Vedi, le nostre vite sono come questi cerchi, creati da un essere che c’è estraneo. Egli è indifferente sia a ciò cui ha dato la vita, sia alla sua rapida fine.».
La voce era bassa, poco più di un sussurro. Dopo un breve silenzio, riprese:
«Tu riposi dove io dormo da mille e più anni. Mille e più volte ho visto le nevi coprire il lago ghiacciato. Lievi, le zampe dei camosci mille e più volte sono passate sul mio corpo e mille e più volte in questo tempo senza fine ho sentito il vento spirare dal Nord, portando i sentori lontani del mio paese, dove i miei figli mi attesero invano e la mia donna fu data a un altro.
Ci crearono gli Dei, e poi ci dissero di andare a combattere genti sconosciute, che gli ori, le femmine e le messi sarebbero stati nostri. Così era scritto.».
Il guerriero iniziò a risalire il sentiero che si perdeva sulla morena, ma la sua voce ancora giungeva chiara.
«Uomo, ora io lo so, tutto è un inganno che non abbiamo ancora imparato a riconoscere. Gli dei sono crudeli e indifferenti alla nostra sorte, e le stesse cose che dicono a noi le dicono ai nostri nemici. Così, in loro nome, ci spingono a dare e ricevere la morte, mentre loro amano, bevono il vino migliore e si cibano di miele. E ricorda: essi non sono misericordiosi, ridono di noi e godono dell'umana stupidità.».
Mi riscossi dal torpore e mi guardai intorno spaventato, ma non vidi altro che il lago e le montagne.
Il ricordo del nonno, giovane soldato del ghiacciaio, e la stanchezza, dovevano aver aperto le porte al sogno travestito da realtà.
Scesi sulla riva con l’intento di bagnare il viso con l'acqua gelida, quasi a scacciare le immagini che mi avevano appena invaso la mente.
Dall'alto del ghiacciaio, con il consueto suono schioccante, si staccò un altro frammento. Rimase a galleggiare, ondeggiando semisommerso come se fosse più pesante del solito.
Al suo interno, in quella trasparenza incerta, una massa scura.
Pareva un corpo e, forse, fu solo suggestione ma vi scorsi una spada, uno scudo, una massa di capelli biondi.
Di lì a poco il frammento di ghiaccio, spinto dal vento verso il centro del lago, si spezzò e quell'ombra appena intravvista s'inabissò nella sua dimora di fango e pietre con un gorgoglio sommesso.
Rimasi ancora un poco a osservare la luce del sole che giocava con le increspature della tramontana. La sensazione di qualcosa di sospeso, che poteva accadere, era spiegata. Da quel momento l'inquietudine che mi aveva accompagnato da quando ero partito andò svanendo, inghiottita dal lago come quell'ombra. Al suo posto, un senso di tranquillo appagamento: l’uomo del ghiacciaio, chiunque fosse stato, aveva trovato finalmente la sua pace.
M’inginocchiai per immergere una mano, ma sull'acqua non vidi il mio volto di uomo anziano. Ciò che osservai nel tremolio lattescente fu solo il riflesso dei secoli trascorsi da quando quell'acqua si era posata lassù, in forma di neve, al confine tra il cielo e la montagna.




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Racconto scritto il 25/04/2015 - 11:32
Da mario malgieri
Letta n.1396 volte.
Voto:
su 6 votanti


Commenti


E' veramente notevole questo racconto che racchiude una realistica descrizione paesaggistica, una visione onirica dei primi conquistatori nordici, un forte messaggio di pace contro l'assurdità della guerra, l'umanità del personaggio ebbro e stupito dai suoni, dai rumori, dal silenzio. Ho votato il massimo che si può, ma meritavi di più.Ciao Salvo

salvo bonafè 18/05/2015 - 20:42

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Grazie ai lettori che hanno lasciato una traccia del loro passaggio, grazie ai votanti e alla redazione tutta, sono qui da pochi giorni è già mi avete fatto un bellissimo regalo... in futuro spero di non deludervi, ma sarà difficile ripetermi: il racconto premiato è frutto del mio amore per la montagna e per la Storia, in altri casi sono più banale nei miei scritti.

mario malgieri 05/05/2015 - 14:04

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Complimenti,sicuramente il più bel racconto.

Claretta Frau 05/05/2015 - 10:45

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ho avuto il modo di leggerlo adesso e mi è piaciuto moltissimo,congratulazioni per la tua meritata vittoria.Ciao ANNA

Anna Rossi 05/05/2015 - 06:37

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Grazie Claretta, questo è un racconto ideato durante una delle mie solitarie camminate in montagna e sì, c'è tanto amore dentro, per i monti e per chi non c'è più.
Presto posterò un altro racconto che è il seguito di questo, spero ti piaccia.

mario malgieri 25/04/2015 - 20:31

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Mario voglio veramente farti i complimenti, il tuo e un bellissimo racconto scritto con una dovizie di particolari armoniosi che si sposano splendidamente con la natura in cui lo hai ambientato.Mi ha catturato da subito e fra le righe ho potuto percepire il grande amore che ti lega al ricordo di tuo nonno.Ancora complimenti per me ė un racconto eccellente

Claretta Frau 25/04/2015 - 19:31

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