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Recondita armonia

Eravamo preparati a puntino, per entrare al Teatro Goldoni in una piovosa sera d’inverno della prima metà degli anni settanta!


Il libretto dell’opera, io e mio fratello, lo conoscevamo tutto, grazie alle lezioni che nonno ci aveva impartito nelle settimane precedenti, perché altrimenti l’opera lirica è una noia mortale se non si conoscono gli avvenimenti che si narrano. Così ci aveva cantato e recitato tutte le parti dell’opera, tutti e tre gli atti della “Tosca”.


Arrivammo con grande anticipo a teatro, perché, insomma, non avevamo biglietti di platea. Nonno conosceva un po’ di gente nel teatro e, con un biglietto di galleria, o in piedi, si poteva accedeva alla platea.
L’ingresso nel teatro è una bella esperienza specie se si è sotto i dieci anni. La sala illuminata, l’ovale della platea che ci abbracciava, sovrastata dall’enorme lucernario del soffitto della sala.
Tutto intorno i palchetti numerati, quattro ordini con il palco reale come chiave di volta.


Vestiti di tutto punto, come in occasione del matrimonio della zia. Diversi ma nello stesso stile, “Recondita armonia.”
Pantaloni lunghi con abbottonatura alla marinara, cappottini Montgomery e camicia bianca. Due figurini “di bellezze diverse!”


Dopo la non breve attesa, ecco che si comincia. Come da copione in platea ci sono numerosi posti liberi, specie nelle prime file. Dopo aver atteso pazientemente in piedi, una volta iniziata l’opera, ci inserimmo con tempismo in quinta fila, dove si vedevano anche gli sputi del tenore che cantava.
“La chiave, la colonna ai piè della Madonna…” la scena inizialmente buia si illumina della sorpresa di due bimbi che per la prima volta assaporano i gesti e l’atmosfera del teatro.


L’ingresso di Scarpia ci fa un certo effetto. Di nero vestito, con voce bassa e convincente che ricordava i rimproveri ai bambini.
“Un tal baccano in chiesa?” Bel rispetto!”


La cattiveria del personaggio lo aveva, come si dice, preceduto e atterriva ancor di più. Si ponevano le premesse del dramma.


La promessa a Cavaradossi “nel tuo cuor si annida Scarpia!” è quasi un giuramento prima del “Te Deum” che conclude il primo atto, facendoci rifiatare.


L’immaginifica atmosfera del Foyer, tra le finte colonne di marmo in “Trompe l'Oeil”, che non avevamo notato all’ingresso, è un ulteriore spettacolo con la gente che rende giustizia alla saletta. Due bibite per noi e un’Averna per nonno, anche se la digestione era già fatta, considerato il largo anticipo col quale eravamo arrivati.


Il secondo atto era il più temuto, per le torture al povero Cavaradossi. La scena, però, data la vicinanza del palco ne sdrammatizza il contenuto, quindi si può andare verso il “vissi d’arte” con animo più sereno e rilassato.
La pugnalata a Scarpia provoca quasi un “te lo meriti.”
Lo canta o lo recita il “Davanti a lui tremava tutta Roma”? Sciolse il dubbio, il soprano e lo recitò per tenersi la voce per il finale!


La seconda pausa non ha lo stesso sapore della prima, come il secondo bicchiere di spuma fresca al cinema d’estate.


Siamo alla fine, l’inganno duplice, triplice. Fuori dal teatro veniva giù un acquazzone memorabile! Ce ne accorgemmo quando sulla scenografia si allargava una macchia d’acqua sul telone di sfondo e quando, dalla copertura scorrevole del teatro, cominciarono a scendere goccioloni di acqua sulle nostre teste.
Ci spostammo e attendemmo che il plotone d’esecuzione facesse il suo dovere a dispetto degli accordi.
“Com’è bello il mio Mario”
Bello e morto, “e cadde come corpo morto cade.”


Volo finale e sipario. Era finita l’avventura sul palco. Gli interpreti escono e rientrano un paio di volte per ringraziare il pubblico che si trattiene all’ingresso per la pioggia insistente che veniva giù.


Aspettiamo che arrivino mamma e babbo a prenderci, sotto le logge davanti al teatro, dalla parte dello scivolo a sinistra, uscendo dall’ingresso.
Quanta acqua si può prendere in dieci metri? Tanta.


Quella sera avemmo il battesimo teatrale, e se quello che il bruco chiama fine del mondo, il mondo lo chiama farfalla, per noi, quello che a Livorno fu chiamato nubifragio, lo ricordiamo come “la prima volta a teatro.”




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Racconto scritto il 09/05/2015 - 08:30
Da Glauco Ballantini
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