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L\'uomo che voleva perdere il suo profumo.

L'uomo che voleva perdere il suo profumo.


C’era questa donna israeliana, aveva i capelli color rame ed un sigaro di cuoio. Saltellava per la città come un canguro distratto in un labirinto di finte siepi.
Cosa cerca questa donna?
Il suo odore.
-Perché non odori?- le domandai, quando saltellò su di me.
-I profumi. Ho usato troppi profumi tutti insieme su di me.
Ho perso la mia identità, ed il sapore delle rose.
Come i bombardamenti che distruggono una città.
Come una ciliegia dal colore acceso che risulta poi essere amara-.
Tale fu il paragone, che anche il vento rallentò il suo soffio.
Ed ogni orologio si esibì in un tempo diverso.
Il ticchettio era sfalsato.
Tale fu il paragone, che il tempo rischiò di fermarsi e le onde del mare rilassarsi troppo.
Portai quella donna a casa mia.
-Ascolta, adesso bevi un po’ di vino e rilassi le labbra- dissi preoccupato.
Avevo forse paura di essere contagiato anche io?
Perdere la mia identità?
Diventare un cammello senza le due gobbe.
Un dromedario con la schiena di una zebra.
Eppure pensavo che avessi bisogno di perderla un po’ d’identità, lasciare che il nuovo m’investisse, liberare il passato. Non che le due cose sia collegate, più dell’identità avevo bisogno di voltare pagina.
Si! Perdere il mio odore e conquistarne uno nuovo.
E' il presente.
Infastidito dai mie ragionamenti, il vento si ferma del tutto ed il tempo anche.
Statico nella mia condizione rifletto.
Sussurrano gli elettrodomestici e lo scricchiolio dei mobili diventa impercettibile.
Sono le 02:00. Si perde il concetto di unità e io mi sdoppio tra presente e passato.
Mi esibisco in un volo che è in realtà un tuffo.
Fragore dell’acqua e una pagina che volteggia.
Perché la domanda è sempre la stessa, ed è anche alquanto sciocca:
Cosa significa fare i conti con il passato?
In realtà significa un bel niente.
E non sono presuntuoso a dire ciò.
Ma per come la vedo io, portiamo continuamente passato a galla, nelle piccole cose, nei sorrisi e nella tristezza, nella sfera dell’incoscio mentre guardiamo un aquilone nel cielo blu senza nuvole.
Nell'odore di tutte le porte.
Nel nostro essere irrequieti, soprattutto al mare,
al mare.
Una riva piena di traumi ormai innocui, ma letali nella nostra mente.
La mente.
Ecco, la verità è che ricordiamo solo quello che ci fa comodo in quel momento, e di solito questo significa la superficie della nostra esistenza.
Ci sono una infinità di combinazioni di bei ricordi e brutti ricordi, ma momenti davvero importanti, almeno per me, non sono così tanti e soprattutto li teniamo ben custoditi.
E' per questo che ho sempre immaginato il cervello come una sorta di labirinto fiorito, intricato nel verde delle sue piante. Il mio labirinto ha fiori di colori viola e azzurro e tracce di rosso.
Non so perchè.
Ma so che muovo sempre nella stessa direzione, perchè cambiare strada significa spezzare malsane abitudini e far emergere nuovi dettagli di ciò che ero ed evitare quindi un divenire alternativo.
E lo immagino il mio labirinto: giro a destra, poi avanzo, ai lati tanti fiori che si sforzano per non appassire, e tutte le spine già dissetate del mio sangue.
Il rumore dei miei passi assomiglia ad una canzone che non esce più dalla testa e che ripeti a memoria, sempre la stessa.
E quindi avanzo e giro di nuovo a destra.
E infine mi ritrovo al solito bivio, qui, giro a sinistra e proseguo per la solita strada che conduce da nessuna parte.
Ma cosa accadrebbe se girassi a destra?
Forse, e dico forse, tornerei al punto di partenza ma...
E dico ma,
senza muovermi immagino di imboccare quella strada, e navigando ancora nella mia immaginazione giungo ad un vicolo cieco, e mi ripeto: “Lo sapevo che dovevo fare la solita strada, dannato me che ho cambiato direzione al bivio”. E a quel punto si paleserebbe una porta chiusa che è cuore pulsante del vicolo cieco.
E sempre nello stesso punto io fermo i passi, e sospiro, guardo nelle tasche dei pantaloni, non c’è nessuna chiave.
Ma, che la memoria mi inganni, io so che la chiave è dentro di me,
eppure,
non riesco a trovarla.
E in quel luogo della mia immaginazione, sono arrivato alla conclusione che questo significa fare i conti con il proprio passato: avere la forza di prendere fottuta chiave e aprire quella fottuta porta.
Prendere a calci i traumi alla deriva del mare, smuovere le onde, alzare cumuli di sabbia umida, bagnata da vane preoccupazioni.
Come cercare di passare attraverso due muri claustrofobici.
Questo è il passo necessario.
Eppure,
Sembra tutto così solido
Ma
basterebbe ricordare che siamo liquidi e sappiamo adattarci.
Anche al passato.
Anche a buttarlo via, liberarci della zavorra.
E adesso quella donna è qui in casa mia ed è priva di profumi, e voglio esserlo anche io.
E' la chiave che sto cercando, quella che apre la strada che al bivio non prendo mai.
Allora la conduco in salotto, qui c'è un divano ed un piccolo camino caldo, il suo calice di vino ormai vuoto e le labbra rosso sangue.
Nessun odore.
-Insegnami a perdere il mio odore- le chiedo
-Non so come fare-
-Allora sposami- sussurro.


Alcuni mesi dopo passeggiamo per la città.
Adesso lei porta la fede al dito ma soprattutto, il mio fastidioso odore.
Il vento sbuffa forte e gli orologi cantano a squarciagola, ed il mare è sempre lì, con le sue onde piene di sabbia dal sapore umidiccio.




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Racconto scritto il 08/05/2018 - 11:01
Da Bruno Gais
Letta n.962 volte.
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Commenti


Grazie per il commento, ma la vera questione è: non puoi affidarti a qualcuno oppure barare per liberarti del tuo passato o di chi eri. L'unica strada percorribile è trovare la chiave dentro sè stessi scoprirsi sul serio, migliorarsi ed amarsi.

Bruno Gais 10/05/2018 - 13:43

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Il cervello...una sorta di labirinto fiorito, lo penso anch'io...un labirinto da cui e' difficile uscire tante volte...intrappolati dai ricordi

Leida M 09/05/2018 - 17:19

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