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Habemus papam

Habemus papam


«Duecentodieci giorni e quasi ottocento scrutini non son serviti a nulla. Tempo e carta buttata dentro la stufa», esordì indicandola, sconfortato ma pure spazientito, il cardinal Boccioni. Poi, alzando gli occhi al cielo, ovvero agli affreschi che decoravano la volta della cappella, aggiunse stizzito: «Per non dire del mancato guadagno dovuto alla chiusura di codesta meraviglia alla folla di fedeli, adoranti e pur paganti!»
Al termine del settecento-novantottesimo scrutinio, conclusosi con una fumata che più nera non si poteva, sette porporati erano tornati nottetempo dentro la cappella; e lì, lontani da occhi e orecchi indiscreti, discutevano sul da farsi.
Erano i sette magnifici burattinai delle sette correnti cardinalizie che reggevano le sorti, spartendosi onere ed onori (invero più i secondi che i primi) di una chiesa in disfacimento.


Avevano fatto il loro ingresso nell’arena del conclave, nel numero massimo consentito di centoventi, il primo marzo 2045; ed ora, sette mesi dopo, i centodiciannove superstiti (l’anziano cardinal Burundi era schiattato nel corso del seicentesimo scrutino) ancora non avevano ben chiaro chi innalzare al soglio di Pietro; il quale, non percependo sbocchi a breve, innervosito dall’andazzo generale il giorno prima aveva fatto tremare, oltre l’immensa cattedrale adagiata sopra le sue stanche ossa, pure l’intera città eternamente sospesa tra l’esser capitale di uno stato laico, o schiava al servizio di una fede portatrice… di lauti guadagni per attività ad essa collegate.
«Avrà un divino significato?» aveva domandato il cardinal Palmito, uno dei capicorrente, prima dell’ultimo scrutinio.
«Forse Dio, ha usato il tremolio per indicare il nome, da votare senza timore», aveva provato a rispondere con disinteressato distacco il cardinal Terremoti, altro capo bastone.
Palmito, che stupido non era, aveva ribattuto con ugual distacco: «O forse, volle indicare chi non votare, per non incorrere in scrolloni ben più potenti».
Terremoti, abbozzando un sorriso carico di livore, sospirando aveva messo in guardia i temerari soci: «Lasciamo stare Dio, che forse è meglio».


Riuniti in semicerchio i porporati carbonari: Boccioni, Palmito, Terremoti, Anceta, Salmastri, Fontanamaria, oltre al camerlengo, pur esso capocorrente, Roboante, guardavano la stufa con disprezzo; come se la colpa del nero fumo uscito dal camino, fosse dell’oggetto e non delle loro inconcludenti trattative per spartirsi o tenersi stretto un potere, in piccola parte pure spirituale… forse!
«Con il ballottaggio tra i due cardinali più votati, non si va da nessuna parte», sentenziò Boccioni. «Li voteranno comunque, sempre e soltanto le correnti di riferimento fino alla fine del tempo… Dobbiamo azzerare tutto e ripartire da capo, scegliendo il candidato tra una rosa di nomi che, bene o male, risulti gradito a tutte le correnti cardinalizie.»
«Per uscire dall’impasse, dobbiamo scegliere un cardinale, se non grullo, perlomeno ingenuo», buttò lì con nonchalance il Salmastri, cardinale della diocesi fiorentina.
«Un giovane alle prime armi, disinformato su tutto e pronto ad accogliere i consigli di noialtri, come fosse oro colato», aggiunse stentoreo il magnifico reggente della diocesi meneghina, Terremoti.
«Oh, ragazzi, ma qui il più giovane dei centodiciannove rimasti, c’ha l’età del dattero», si prese la briga d’informare gli altri, caricando il timbro ispanico d’un retrogusto leggermente ironico, il madrileno, cardinal Anceta.
«Ci sarebbe Robertinio», si udì sussurrare.
Sei sguardi si voltarono all’unisono in direzione di chi, stringendo il mento aveva assunto nel pronunciarne il nome, posa da gran pensatore.
«Intendi, il pischello al primo conclave?» chiese sarcastico Palmito, cardinale della potente diocesi newyorchese.
«E chi se no», rispose accarezzandosi la pappagorgia Roboante, che essendo pure il camerlengo s’era informato su a chi avrebbe volentieri ceduto la cadrega senza intaccare il proprio potere.
«Non lo conosco. Non so manco se c’ho parlato», fece con sguardo altero il Boccioni. Poi, volgendo lo sguardo all’intorno, domandò in giro: «Qualcuno di voi l’ha inquadrato?»
Tutti fecero cenno di no scuotendo il capo. Allora Boccioni invitò Roboante a proseguire. «Robertinio, sessantenne cardinale della diocesi di Manaus, in Amazzonia, è il meglio che possiamo trovare. Ѐ quanto di più lontano dal potere ecclesiale…» si tacque un attimo, sorrise e strofinando i polpastrelli dell’indice e del pollice precisò. «Se per ecclesiale intendiamo non quello spirituale, ma temporale; ovvero, pecuniario. Pensate che s’è dato la missione di mondare dal male le patrie galere. Per questo dedica buona parte della sua apostolica missione girando per le carceri della regione a confessare, cercando di redimerli, assassini della peggiore risma, disinteressandosi completamente della gestione finanziaria della diocesi.»
«Oh, questa l’è proprio bella… E chi l’è che tiene in ordine i conti della sua chiesa, senza mandarla a catafascio?» chiese inorridito Salmastri.
«Un vescovo della corrente sua», rispose Roboante, indicando l’ispanico Anceta. Il quale ribatté sorpreso: «O bella! Mica lo sapevo che la mia corrente di pensiero s’era estesa sin nel nuovo mondo, dovrò verificare».
«Non perder tempo a farlo. Passa nel mio ufficio, e ti mostrerò le prove di ciò che affermi di non sapere», replicò a muso duro Roboante.
Anceta, sentendosi trattare da spergiuro, mise su un muso duro.
«Non siam qui per litigare!» sbottò allora Boccioni, riportando la calma prima che un rosario di reciproche accuse travolgesse tutti quanti. «Ma per decidere chi innalzare… e se codesto cardinale è un così sant’uomo che pensa solamente alla salvezza delle anime, lasciando a noi, altre ardue incombenze.» Penetrò gli occhi avidi dei cardinali, quindi concluse: «E se esso così fosse… come si suole dire: cadrebbe a fagiolo!»
«E pure a pennello», chiosò allegro Roboante.
E sorridendo tutti, in men che non si dica trovarono l’accordo invano cercato con il lanternino per duecento inutili giorni d’inconcludenti schermaglie per spartirsi il potere, pecuniario-ecclesiale.


Il mattino seguente, dopo aver istruito le proprie truppe cardinalizie sul da farsi, i magnifici sette decisero di posticipare al primo pomeriggio lo scrutinio decisivo. Serviva loro un po’ di tempo per saggiare il terreno, ovvero: capire se il prescelto fosse realmente un tipo facilmente malleabile.
«No, di finanza non capisco un tubo, e nemmeno m’interessa farmi venire il mal di testa a far di conto», rispose il Robertinio a specifica domanda del Boccioni. Aggiungendo che: «Se cercate un Santo padre che diriga lo IOR… beh, allora avete sbagliato indirizzo. Altra storia se invece volevate un uomo che si occupi di riportare nella casa del padre gli Angeli precipitati negli inferi, di cacciare i mercanti dal tempio e accogliere i reietti».
«Che sant’uomo!» esclamò estatico Roboante. «Ѐ stata una lunga e dura ricerca, ma alla fine Dio l’ha premiata. Non abbiamo atteso invano, sette lunghi mesi» concluse abbracciando l’eletto. Pensando nel frattempo: “E dove lo peschiamo un altro cardinale siffatto”.
«Beh!» fece il prescelto durante il cambio guancia. «Ѐ risaputo che i settimini hanno una marcia in più», trascinando al riso la purpurea tribù.
«Tu dovrai solo pensare al lato spirituale», lo informò Boccioni, abbracciandolo per secondo. “Che per quello materiale, so già io chi incaricare”, sogghignava quatto quatto.


Quando il cardinale decano pose la fatidica domanda, l’eletto senza tentennare esclamò: «Accetto!» lasciando di stucco gli altri per la prontezza scevra, all’apparenza, d’ogni forma d’emozione.
Ma fu quando il decano gli chiese con quale nome desiderasse esser incoronato, che la platea trasalì. «Lucifero!» esclamò con ancor più decisione.
Chi baciando il crocefisso pettorale, chi facendosi il segno del cristiano, chi pregando, provò a esorcizzare il nemico penetrato nel conclave.
Boccioni, trattenendo a stento la rabbia, si avvicinò all’orecchio dell’eletto. «Che ti frulla per la testa? Scegli un altro nome, alla svelta!» sussurrò, digrignando i denti.
«Non ci penso proprio!» urlò Robertinio, così che lo potessero ascoltare pure le figure del Giudizio universale.
E volgendo lo sguardo all’intorno, con voce ispirata spiegò le proprie motivazioni: «Lucifero è un angelo caduto in basso, ed io, portando in così alto loco il nome suo, sarò d’esempio per chi ancora spera di risalire dall’inferno in terra, dentro cui precipitò per colpe a volte sue… ma anche no».
«Ma che ti sei messo in testa? Di smontare la secolare, Sacra Romana ecclesia?» sbottò irato Roboante, con l’indice ben teso verso l’alto.
«Io sono stato eletto per riportar le pecore all’ovile. E questo son qui a fare, se mi sarà concesso… altrimenti, lasciamo stare. Scegliete pure un altro e lasciatemi cardinale», rispose senza timore il Papa in pectore.
«Ma il buon pastore», provò a interloquire in tono suadente, oltreché spagnoleggiante, Anceta, «le pecorelle, non le potrebbe riportare all’ovile, usando un altro nome?»
«No!» rispose lapidario, piantando gli occhi neri dentro l’allibito sguardo del cardinale madrileno. «Le pecore smarrite, aduse ad ascoltar soltanto il verbo adulante di chi le ha circuite, seguiranno in ogni dove chi, seppur usando un diverso idioma, del nome suo si fece inorgoglito portatore.»
«Questo qui l’è proprio folle. L’è fuori come un terrazzo, eh», sussurrò Salmastri all’orecchio di Palmito.
«Da ricovero», confermò questi a mezza bocca. «Un invasato siffatto che pensa solo alle anime, mica ce lo possiamo lasciar scappare.»
«E cosa si può fare, se il nome non lo vuol mica cambiare?» chiese allora il Salmastri, aggrottando le spesse sopracciglia grigie.
«Sta a guardare», rispose sogghignando il Palmito. «Non è l’abito che fa il monaco! Non sarà un nome a non fare un papa!» annunciò stentoreo avvicinandosi all’eletto. E mentre gli altri lo guardavano basiti, chiosò abbracciandolo con il sorriso a fior di labbra: «Se esso crede fermamente che, assumendo su di sé il nome dell’Angelo ribelle, possa salvare milioni di pecorelle… io direi di lasciarlo fare».
Un brusio di disappunto accolse la proposta indecente. Al ché, Palmito, puntando l’indice contro ognuno, così si espresse usando un tono ieratico: «Chi siete voi, o uomini impuri che vi arrogate il diritto di decidere a nome dell’Immenso, che basta null’altro che un nome, bello oppur brutto a parer vostro, a dirimere chi è degno d’entrar o uscire dentro la sacra, Romana ecclesia?»
«Amen!» esclamarono in coro i cardinali, incantati dall’eloquio forbito e teatrale del Palmito.
Fu così che dopo un duello, anche aspro usando chi la spada chi il fioretto e chi pure il coltello, i cardinali decisero d’accendere la stufa. «E sia quel che sia», chiosò il Roboante, guardando la fiammella sprigionare fumo bianco.


«Eminenze! Eminenze!» esclamava trafelato un monsignore, giungendo dalla sala delle vestizione.
«Calmati, respira e poi dimmi che c’è ancora», diceva con pacata saggezza Roboante all’ansimante sacerdote.
«Il Santo Padre…» provò a spiegare. Subitamente interrotto dal Boccioni, che strabuzzando gli occhi gli chiese: «L’è morto?»
Al che, i cardinali presenti tornarono; chi a baciare il crocifisso pettorale, chi a farsi il segno del cristiano e chi compunto a pregare.
«Santa Vergine… nooooooooo!» fece il pretino cadendo in ginocchio.
«E allora non stare a fare sceneggiate!» lo redarguì duramente l’Anceta. «Alzati e spiegati!»
«Il Santo Padre… non vuol calzare le scarpe rosse», rispose timidamente il poverino.
«Si vede che come i tori, odia il rosso», provò a stemprare il clima plumbeo con una battuta il Palmito. Prontamente dal Salmastri, in tono ironico assistito: «Speriamo riservi un ugual trattamento pure ai rossi… e non di pelo, intendo».
La gran risata dei cardinali tutti rimbombò nell’ampio salone, e pur sul volto allibito del povero pretino.
«Che metta pure i calzari a lui più consoni, pure le infradito se lo ritiene opportuno. Dopo aver ceduto sul nome, mi par questione di lana caprina stare a disquisire su un paio di scarpe», tirò le somme il Roboante.
«Come vuole, eminenza», mormorò baciandogli l’anello il prete calzaturiere. Prima di precipitarsi nella sala delle vestizioni.
«E se dovesse uscire a piedi nudi?» si chiese e chiese l’Anceta.
«Peggio per lui. Deambulando sul freddo marmo, si piglierà un bel raffreddore», rispose con sguardo e tono ilare il Salmastri.


Quando il novello Santo Padre uscì dal vestibolo, gli occhi dei cardinali andarono subitamente a sbirciargli le estremità inferiori.
Ammutoliti guardavano allibiti le scarpe da jogging, giallo flou, far capolino ad ogni passo dal candido vestiario cerimoniale.
«Io son pronto, vogliamo andare?» annunciò il novello Pietro, indicando agli ammutoliti porporati la via che conduceva al balcone, aperto sulla piazza stracolma di fedeli.


In ordinata, accoppiata fila, il corteo si mise in moto. Silenti, con le mani congiunte ad ispirar sentore di preghiera, i cardinali seguivano pedissequamente il Papa affiancato dal camerlengo Roboante.
«Ho notato», fece ad un certo punto il Papa, indicando i piedi del Roboante, «che nessuno di voi monta calzari comodi.»
«Santità, le assicuro che pure le nostre scarpe, di finissima pelle e fatte a mano, sono comodissime», lo informò Roboante.
«Uhm», fece il Papa corrugando la fronte. E dopo una breve riflessione, proseguì dicendo: «Ѐ già, voi fuori di qua vi muovete solo seduti dentro vetture blu superveloci e superaccessoriate, fornite pur d’autista d’ordinanza… Ma se non parlando tra la gente, il verbo del signore come lo spargete? Urlando a squarciagola come ossessi dall’auto in corsa col finestrino aperto? Rischiando pur di metter sotto qualche povero cristiano?»
Roboante, trattenendo a stento un moto di riso, pensò che quella del Papa fosse solo una simpatica battuta. Ma quando egli aggiunse: «Domani stesso emetterò una circolare, così che ogni cardinale venga dotato di scarpe da jogging… E conseguentemente privato dell’auto blu con annesso autista», iniziò a dubitare che il Santo Padre volesse solo scherzare.
L’Anceta, che dalla seconda fila aveva udito tutto, allarmato diede di gomito al Boccioni che gli stava a fianco.
Allora questi, letto il terrore nel suo sguardo, gli fece cenno di star calmo muovendo su e giù le mani davanti alla gran panza. Poi, portando l’indice destro alla tempia lo tranquillizzò facendogli capire che il Papa, stava sragionando.
Anceta volse gli occhi al cielo. “Siamo a cavallo, se c’era un cardinale matto nel conclave, l’abbiamo scelto. Speriamo in bene”, pensava, mica troppo convinto lo potessero governare a loro piacimento.


Quando il corteo si arrestò davanti al balcone e il protodiacono si mostrò, l’applauso liberatorio della folla fece vibrare il cuore di Robertinio, alias Papa Lucifero, in attesa dietro le quinte.
Dopo aver pronunciato la formula di rito, giunse il momento tanto atteso. Il protodiacono si voltò titubante, Roboante con un cenno stizzito della mano lo invitò a proseguire. «Lucifero!» esclamò allora l’anziano cardinale, che mai avrebbe immaginato di dover pronunciare una simile eresia dal sacro balcone della Basilica romana.
L’esclamazione ebbe un effetto straniante sulla folla assiepata nel tiepido tramonto dentro l’immensa piazza. C’era chi si chiedeva se fosse solo un incubo e chi, guardando le statue sopra al colonnato del Bernini mutare in demoni, si domandava in qual girone infernale fossero stati precipitati.


Papa Lucifero s’affacciò al balcone e, in un silenzio irreale, salutò la folla con un amichevole: «Ciao!»
Poi, mentre la folla allibita cercava di capire se stesse su scherzi a parte, iniziò il lungo monologo in cui tracciava le linee guida del suo pontificato. Allora, la moltitudine affascinata dal discernere dell’uomo che della fede, vera e sincera, aveva fatto la sua ragion d’esistere, iniziò a sciogliersi; dapprima sottolineando con brevi applausi che si fecero via via più convinti, per terminare con un’ovazione quand’egli concluse dicendo: «La chiesa è del povero, ma anche del ricco… Ma il denaro della chiesa deve essere usato per aiutare chi ha bisogno, non per finanziare il ricco… oppure, com’è purtroppo accaduto in passato, per altri sporchi intrallazzi. Nello statuto della chiesa, ma ancor più dentro le coscienze di chi la governa…» si tacque volgendo lo sguardo colpevolizzante all’indietro, puntandolo addosso ai cardinali che lo ascoltavano chiedendosi dove volesse andare a parare; poi si volse verso la folla, e alzando il tono concluse: «deve esserci scritto che il denaro; sia esso quello delle offerte, delle donazioni, dello IOR o di qualsiasi altro ente ecclesiastico, deve essere usato sì! Ma solo ed esclusivamente per aiutare i poveri! E questo dovrà essere fatto già da domani stesso! Io, Papa Lucifero, giuro davanti a Dio e al mondo di scacciare definitivamente i mercanti dal tempio!»
«Mi sento mancare… Dio mio… aiutaci… questo ci caccia in bolletta», biascicava smarrito il cardinal Fontanamaria, sorretto ed assistito dagli altri sei, ex magnifici sette.
«Bella idea quella di eleggere uno sconosciuto! Davvero una gran genialata», diceva sarcastico Terremoti, mentre il Papa iniziava ad impartire la benedizione “urbi et orbi”.
«Ѐ no è!» fece Roboante sgranando gli occhi. «Eravamo tutti d’accordo mi pare, ora non cominciamo a rimbalzarci le colpe l’un l’altro!»
«Questo sta davvero male», disse Anceta, riportando l’attenzione sull’ansimante cardinale.
Boccioni osservò l’occhio vitreo, gli tastò il polso ed emise la sua diagnosi: «Se la sta facendo sotto dalla fifa, non muore mica, state tranquilli».
«Tranquilli un paio de palle!», sbottò Salmastri. Indicò la schiena del Papa benedicente e domandò: «Che facciamo se codesto non cambia registro? Mica possiamo mandare il malora il frutto del lavoro di una vita!»
«Tranquilli», fece Palmito. «Vedrete che si convincerà, con le buone oppure con le cattive, a non mandare in malora niente e nessuno…» fece una pausa, e leggendo perplessità nello sguardo degli altri, per risollevare loro il morale, aggiunse in tono ironico: «a parte i poveri e i reietti, che tanto lo sono già!»
«E come si può fa?» chiese il Salmastri.
Palmito sospirò. «Le vie del Signore, sono infinite», rispose alzando gli occhi al cielo. E usando un tono sardonico, chiosò: «La vita di un Pontefice può essere assai lunga o molto breve… a seconda delle convenienze».
Al che, tutti annuirono, e il Fontanamaria, novello Lazzaro, resuscitò.


«Devo chiede a voi e agli altri cardinali del conclave, di restare a Roma per un’altra settimana almeno… Ci sono cose importanti e urgentissime da sistemare», annunciò Papa Lucifero rientrando.


«Düra minga», sussurrò Terremoti all’orecchio di Salmastri, mentre seguivano il Papa intento a spiegare la sua visione della chiesa moderna.
«Düra no!» confermò Salmastri, esibendo un ghigno satanico.


FINE




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Racconto scritto il 02/08/2018 - 21:23
Da vecchio scarpone
Letta n.774 volte.
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Commenti


Papa

laisa azzurra 03/08/2018 - 11:26

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Nn c'è stato perché effettivamente Francesco è un rivoluzionario, ma probabilmente nn quanto l'altro. Papà Luciani era anche un politico, un economista, estremamente preparato

laisa azzurra 03/08/2018 - 11:09

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Codesto racconto lo scrissi pochi mesi dopo l'elezione di Papa Francesco. Osservando i cambiamenti, per certi versi rivoluzionari, che stava apportando all'istituzione papale, mi domandai quanto tempo sarebbe durato il suo pontificato; e in quei frangenti mi scorprii a pensare al breve pontificato da te citato nel commento.Fu il papato ancora in essere, e quello prematuramente concluso a ispirarmi la trama di questo racconto satirico che, ripensandoci ora, potrebbe essere stato un modo per esorcizzare il timore di un altro papato brevissimo che, per fortuna, non c'è stato. Ti ringrazio.
Ciao Laiza
Giancarlo

vecchio scarpone 03/08/2018 - 10:30

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Papa Luciani
Né più, né meno
Complimenti Giancarlo, stupendo

laisa azzurra 03/08/2018 - 09:17

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