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il miracolo di Halloween

Il miracolo di Halloween


“Il tredici dovrebbe portare bene… speriamo che questa sia la volta buona… Sono stanco e malato, a un altr’anno non ci arrivo, ma non voglio morire così, solo come un cane. Solo un miracolo mi può salvare… Il miracolo di Halloween!” rifletteva chiudendo la porta di casa.
Guardò l’orologio. “Mezz’ora a mezzanotte”, pensò tirando su il bavero del pastrano. Calcò il cappello a larghe tese sulla testa e s’immerse in una nebbia da tagliare con il coltello.
“Che notte strana, nemmeno un bambino mascherato da mostriciattolo per strada”, pensò ancora, andando verso il fiume. “Sarà per questa nebbia gelida”, tirò le somme stringendosi nelle spalle.


*************************************


Il sessantenne Ottorino Rubicondi non era solito uscire di casa a tarda ora. Lui era solo lavoro, casa, ricordi e rimpianti dal quel maledetto Halloween di tredici anni prima, che si era abbattuto come un colpo di maglio spazzando via in un sol colpo il suo oggi e il suo domani.
Non lo poteva certo prevedere che quella gravidanza così complicata, che aveva generato il figlio tanto agognato da dieci anni, un pargolo gracile e bisognoso di cure, per questo ancor più amato e coccolato, potesse procurare un così pesante trauma post parto all’amatissima moglie Clelia.
Una lunghissima depressione, mai del tutto sconfitta, tenuta a bada con psicofarmaci, che le si riproponeva periodicamente con scatti d’ira seguiti da giorni di apatia.


“Si è ripresa alla grande, pare essere tornata la donna solare di un tempo… Speriamo che duri”, pensava Ottorino stravaccato sul divano, osservando madre e figlio giocare sul tappeto davanti al crepitante camino.
Era certo che non sarebbe durato a lungo. L’ultimo accenno di crisi era riuscito a soffocarlo, intervenendo prontamente, appena sei giorni prima; quando, insieme a Luigino, erano andati a comprare costume e maschere per la festa di Halloween.


*************************************


«No! Non mi piace! Voglio il costume da vampiro», aveva insistito col magone Luigino, di fronte alla testardaggine della madre che voleva provargliene uno da zombie.
«Avevamo deciso che saremmo stati tre zombie, non puoi fare sempre come ti pare, hai capito!» aveva urlato Clelia, facendo voltare il commesso.
“Ahi, butta male”, aveva pensato Ottorino. «Ascolta, Luigino, il costume da vampiro è sfruttato, ti ricordi quanti ne abbiamo visti l’anno scorso? Quello da zombie è l’ultima novità, ce ne saranno pochi in giro, farai un figurone, ti invidieranno tutti», gli aveva spiegato subito dopo accarezzandolo.
«Se è così… allora voglio quello da zombie», aveva mugugnato, poco convinto, Luigino.
Clelia, senza pronunciare verbo, glielo aveva prontamente infilato; controllando che gli andasse, più o meno, bene facendo ruotare il piccolo davanti al suo sguardo arcigno. Poi, dopo averglielo sfilato in fretta e furia, aveva preso il costume completo e altre due maschere da zombie, e posandole sul banco aveva annunciato in tono sgarbato: «Prendiamo queste!» mostrandole al commesso.


*************************************************

Il suono insistente del cellulare interruppe l’armonico quadretto. Clelia mise su un’espressione infastidita.
«Vado io!» esclamò allora Ottorino. E balzando in piedi corse a recuperare il cellulare lasciato sul tavolo della cucina.
«Cosa c’è che non va?» chiese Clelia, vedendolo tornare abbacchiato dopo un paio di minuti.
«Era il gran capo, devo correre in ufficio», rispose deluso.
«Mah! Alle sette di sera? Sei impazzito!» proruppe balzando dal tappeto, mentre Luigino sgranava gli occhi impaurito.
«Non posso rifiutarmi, vuole la relazione entro domattina sul suo tavolo», si affannò a spiegarle in tono contrito, temendo d’aver innescato un corto circuito mentale nella testa di Clelia.
«Ah sì! E tu hai obbedito come un bravo soldatino, senza nemmeno trovare il coraggio di ricordargli che, oltre ad Halloween, tuo figlio festeggia pure il suo quinto compleanno!» lo incalzò con gli occhi fuori dalle orbite Clelia.
«Cerca di capire, cara…» provò a giustificarsi con tono pacato. Prontamente interrotto dalla voce stridula della furibonda moglie: «No, che non voglio capire! Chi accompagnerà Luigino, mascherato da zombie a fare “Dolcetto o scherzetto”? Io da sola?!»
Il pianto convulso del piccolo pose fine alla diatriba. Clelia corse da lui e lo strinse a se baciandolo sulla fronte. Lo stesse fece Ottorino accarezzandogli la testolina. E il combinato disposto delle coccole riuscì a rasserenare Luigino.
«Cercherò di fare presto, porterò con me la maschera. Ti prometto che mi troverete sul ponte ad attendervi», la rassicurò sorridendo. Poi si rivolse a Luigino: «Dovrai iniziare con la mamma. Ma davanti alla porta dei genitori di Robertino, ci sarò anch’io».
«Va bene, papà», fece lui poco convinto, appoggiando il capo sulla spalla della madre.
Clelia sbuffò. «Papà sarà di parola… Vero papà?!» fece usando un tono da reprimenda, fulminandolo con uno sguardo tagliente.
«Certo che sì!» rispose, mettendo su un sorriso, invero poco allegro.


«Già le dieci! Sono in ritardo!» sbottò leggendo l’ora nell’angolo in basso a destra dello schermo del PC.
Si alzò, girò attorno alla scrivania e si precipitò alla finestra che si apriva sul lungofiume. “Sono già lì che mi aspettano”, pensò sorridendo, riconoscendo il cappotto verde oliva della donna con la maschera da zombie appoggiata al parapetto in travertino del ponte e il costume dello stesso genere indossato dal bambino che teneva per mano.
Il sorriso si spense quando vide il bimbo strattonare la mano della madre nel tentativo di liberarsi e, di seguito, Clelia che, scuotendolo, indicava con la mano libera il parapetto.
«Stai calma, amore, sto arrivando», gli sovvenne di urlare, pur sapendo che lei non lo avrebbe potuto udire.
Corse alla scrivania. «Al diavolo tutto quanto! Domattina verrò in ufficio un’ora prima e finirò il lavoro», diceva mentre, trafelato, salvava la relazione prima di spegnere il PC.
Indossò il cappotto e corse verso l’uscita. «La maschera, maledizione!» proruppe tornando sui propri passi. Aprì la valigetta, prese la maschera in lattice da zombie, la infilò nella tasca del cappotto e si precipitò giù dalle scale.


«Cos’è quella ressa sul ponte?» si chiese, notando un assembramento accanto al parapetto dove, pochi minuti prima, aveva visto sua moglie redarguire Luigino.
«Ha messo il bambino sul parapetto, l’ha spinto giù e poi si è buttata!» udiva urlare di là dalla strada.
Un agghiacciante presentimento lo colse. Sbiancando in volto attraversò il viale. «Clelia! Luigino!» urlava fendendo la folla che si era accalcata sul ponte.


Il fiume, gonfio all’inverosimile per le forti precipitazioni che per l’intera settimana avevano flagellato la regione, nonostante l’impegno dei sommozzatori non restituì i corpi di Clelia e Luigino.
Trascorse tre giorni, Ottorino, seguendo impietrito le ricerche appostato lungo gli argini, sperando in un impossibile miracolo, prima di comprendere che nemmeno i poveri resti su cui piangere gli avrebbe restituito il fiume.


Come può affrontare la vita un quarantaseienne che precipita dentro un inferno di dolore e solitudine? Con forza, affrontandola a muso duro; oppure lasciandosi scivolare nel gorgo di un ricordo, che si fa rimpianto per vestirsi di rimorso.
Ottorino scelse di chiudersi, condannandosi a un arido sopravvivere dentro un dolore solitario e infinito.

Giorni apatici tristemente uguali. Poi il sogno nella notte che precedeva un altro Halloween gli regalò un’illusione, una ragione per continuare a vivere.
Più che sogno lo definirei un incubo, che gli si riproponeva, sempre uguale, ogni anno nella stessa notte.


Ottorino sognava di attraversare una città notturna e deserta, poi si fermava su quel maledetto ponte, si accostava al parapetto e, gettando lo sguardo all’acqua che correva impetuosa, vedeva la moglie e il figlio, entrambi con indosso la maschera da zombie, emergere da un gorgo.
Li udiva implorare di seguirli, allungare le braccia e trascinarlo con loro nel mondo di Halloween, sito sotto il letto del fiume.
E lì, in quella specie di mortorio illuminato dalla fredda luce lunare, stringendo le mani di Clelia e Luigino percorreva strade, attraversava piazze affollate di bimbi, di padri, di madri dal volto occultato da ogni sorta di maschera grottesca.


********************************


Quando raggiunse il ponte, vide in lontananza una madre che, tenendo per mano un bimbo con la maschera da lupo mannaro, lo percorrevano in senso inverso. Allora, in attesa che transitassero, accostandosi al parapetto, guardando scorrere l’acqua tastò nella tasca del pastrano. “Stavolta mi sono portato il passepartout per l’eternità. E’ incredibile la quantità di roba inutile che si accumula nel tempo. Ho dovuto buttare all’aria mezza cantina per trovarla… Non posso, non devo fallire, è l’ultima occasione, m’è rimasto un solo colpo in canna”, pensava nel mentre, assaporando l’inizio di un cammino eternamente felice accanto ai suoi due amori.
Udì i passi alle spalle, attese che si perdessero nella notte, poi salì sul parapetto.
«Clelia? Luigino? Mi sentite?» esordì chiamandoli con voce rotta. «Non ho perso la speranza di riunirmi a voi… Per dodici lunghi anni, ogni notte di Halloween son venuto qui, sperando che veniste a prendermi… Questo, purtroppo, sarà l’ultimo… sto morendo, Clelia. L’anno prossimo non ti potrò venire a salutare, Luigino. Vi prego, mostratevi, non lasciatemi solo, portatemi con voi.»
Si tacque mettendosi a fissare la corrente. “Niente! Solo nebbia e acqua che scorre impetuosa”, pensò sconfortato.
Guardò l’orologio. «Mezzanotte passata… No, non può finire sempre così. Stanotte resterò con voi!» disse infilando la mano destra nella tasca del pastrano. «O con nessuno!» concluse lanciando il cappello nel fiume, prima d’indossare la maschera da zombie che non aveva potuto esibire davanti alla moglie e al figlio quella tragica notte.
«Oh sì… Ora vedo le vostre maschere. Sì, Clelia, ora ti sento… Anche tu, Luigino, la tua vocina la sento allegra…» diceva estasiato osservando attraverso la maschera un gorgo che si allargava. «Chiamate il mio nome! Agitate le braccia! Aspettatemi! ARRIVOOO!»


FINE




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Racconto scritto il 30/10/2018 - 13:44
Da vecchio scarpone
Letta n.841 volte.
Voto:
su 1 votanti


Commenti


Ti credo Giancarlo, capita anche a me quando scrivo delle storie in cui mi immedesimo...
Buona giornata amico di penna

PAOLA SALZANO 31/10/2018 - 09:52

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probabilmente, sia questo che l'altro, non sono dei veri e propri horror, infatti mi pare di aver messo come genere "Amore". Hai ragione nel sottolineare che questo genere di racconti sono quelli in cui do il meglio di me... le storie struggenti, dal finale non sempre felice sono quelle che più mi prendono, non ci crederai ma riesco persino a commuovermi mentre le scrivo. Ti ringrazio.
Ciao Paola.
Giancarlo.

vecchio scarpone 31/10/2018 - 09:02

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Caro Giancarlo, in questo genere di racconti sei molto bravo a mostrare le emozioni ed il dolore dei protagonisti.
Come l'altro, anche questo mi ha commosso e non ti nascondo, che gli epiloghi mi hanno lasciato una sorte di tristezza profonda...
Hai un bello stile di scrittura, elegante.
Complimenti ancora e buona serata!

PAOLA SALZANO 30/10/2018 - 21:25

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