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IL NATALE DI SARA

(Il mondo è un posto orribile dove la gente ti passa sopra e si incazza pure perché si sporca le scarpe con il tuo sangue)



Che sia Natale lo si può capire semplicemente spiando i soliti centri commerciali, moderni formicai brulicanti di salme disorientate che si ammucchiano le une sulle altre, ed intarsiati da luci e decorazioni volgari, piazzate lì da almeno un paio di mesi.
Luoghi perfetti per chi non ha nulla da fare, soffocanti per chi detesta gli spazi chiusi.
Il Natale irrompe e non intende passare sotto silenzio. Bombarda ossessivamente con immagini ed atmosfere surreali, paesaggi imbiancati e famiglie ben vestite raccolte attorno a focolari odorosi di abete. Uno stridente mix di realtà e fantasia, condito con il solito oceano sconfinato di pubblicità.
Le strade si vestono di mille colori sgargianti, serpenti di luce si rincorrono sui balconi dei palazzi e li trasformano in tante discoteche, mentre abeti giganteschi luccicano al centro di piazze illuminate a giorno.
Amore ed ipocrisia si incontrano in queste giornate gelide. Regali inutili e falsi sorrisi sono il filo conduttore di un’abitudine che celebra il consumismo come un tritacarne e purifica le coscienze alla fine dell’anno.
Proprio ciò che non amo.
Preferisco il silenzio, il raccoglimento. Non ho mai smaniato per la folla, le luci, il chiasso. Sono una ragazza sobria e non sono mai stata abituata ad avere tante cose. Anzi, casomai, ad averne poche.
Vivere in campagna, una volta, non era facile. Solo chi ci era nato aveva sviluppato, nel tempo, gli anticorpi necessari. Chi, invece, veniva da fuori faticava a comprendere come si potesse abitare in certe topaie umide, che sembravano più dei ruderi e si meravigliava che là dentro, accanto alle bestie, abitassero anche degli esseri umani, che arrivavano a fare dei figli e, ogni tanto, addirittura a volersi bene.
Me lo ricordo bene.
Ma ricordo anche che, a Natale, le cose cambiavano.
Dopo un anno carico di sacrifici e rinunce, Natale arrivava come in punta di piedi a portare dentro casa un insolito senso di pace.
A Natale tutto sembrava diverso. Pure l’inverno sembrava essere meno freddo.
La bruma mattutina si condensava in strati sottili e sembrava galleggiare nell’aria, seguendola in quel dolce dondolio simile alla risacca marina, mentre la luce tremula si insinuava tra le fumanti zolle di terra facendole risplendere in mille riflessi cristallini.
Poi il sole prendeva decisamente il sopravvento e la sua luce splendente si spalmava come un unguento magico sulla campagna fradicia e sui muri crepati e l’aria non sapeva più di umidità rancida. Mio padre smetteva di picchiarci con il bastone e la vita sembrava persino bella.
Un grande tavolo imbandito, al centro della stanza, faceva da padrone, contornato da vecchie sedie impagliate che sembravano vestite a festa. Il camino galoppava come una locomotiva e le lingue di fuoco schizzavano come tante piccole comete. Le loro sfumature dorate e l'acqua che bolliva, con la legna che scoppiettava, sembravano vecchi amici che iniziavano insieme a canticchiare.
A Natale, come per magia, la muffa, gli scarafaggi e i vestiti distribuiti dalla parrocchia non esistevano più. Si tirava tardi a tavola, davanti a vere e proprie leccornie, ridendo e facendo finta che domani non sarebbe ricominciato tutto come prima.
E quando arrivava la sera e fuori il freddo tagliava il respiro, me ne andavo a dormire. Mi infilavo nel tepore del mio letto riscaldato con le braci e spiavo la luna nel cielo attraverso le persiane rotte o tra le fessure delle tegole del tetto e immaginavo la vita che avrei voluto. Mi addormentavo e sognavo di vivere in un mondo dove tutti mi conoscevano e dove potevo correre all’indietro per cambiare le cose.
Ma poi le urla di mio padre, lo schianto dei piatti lanciati e il pianto di mia mamma mi svegliavano e capivo che indietro non si poteva tornare. Non si poteva cambiare un copione che altri avevano già scritto.
La scritta “Buon Natale” verga sanguigna le porte delle case annegate nella nebbia. Le case svaniscono svelte, una dietro l’altra.
In questo lago di ovatta inzuppata sembrano carta velina che si sventola e poi si straccia in tanti filamenti luminescenti. Madidi di luce, alberi inghirlandati si fondono sul cofano dell’auto restituendo tratti di pennello densi ed abbaglianti.
Nei giardini e sui davanzali brillano intermittenti alberelli natalizi che, nel panorama lattiginoso, irrompono come roventi diamanti alieni.
Il riverbero dei circuiti luminosi sulle finestre disegna sudari infiniti che circondano le case con un abbraccio languido ed evanescente.
Decelero, stacco il piede incollato al pedale. L’auto ora procede quasi a passo d’uomo e l’ebbrezza della fuga svanisce. Sono arrivata.
Il cielo ora è una distesa grigia, la strada deserta. E, intorno, ettari su ettari di aperta campagna. Davanti a me un vecchio muro crepato troneggia come uno spettro solitario su questo deserto di grigio, stoppie e rami secchi.
A lato della strada, alberi spogli, tristi e gocciolanti di umidità, appaiono come tanti testimoni muti ed indifferenti.
Varco il cancello e mi aggiro come un fantasma tra i vialetti silenziosi.
I miei passi scricchiolano sul ghiaietto, che punge attraverso le suole leggere, e sfumano lentamente in un eco rassicurante. I vialetti non sono mai stati lastricati, sono rimasti come allora, sobri ed amichevoli.
Mi siedo sul freddo marmo ed offro il volto al vento gelido che soffia dai campi. I capelli mi cadono sugli occhi e nascondono una lacrima.
Adesso posso anche piangere, adesso posso anche smettere di essere forte, perché qui nessuno può vedermi.
L’odore di umidità, frammisto al fumo di qualche camino lontano, mi avvolge. In lontananza c’è sempre l’immensa campagna indurita dalla brina, intorno a me solo nebbia e ricordi.
Ricordi annegati, sepolti sotto la sabbia del fondale della memoria, che ora tornano in superfice dall’abisso dei miei pensieri. Ricordi lancinanti, dolorosi, ricordi da non ricordare mai più.
Alzo gli occhi e c’è la tua foto sbiadita. E ci sono io, una bambina di nove anni in mezzo ad una stanza a soqquadro. Papà con in mano il bastone e tu per terra in un lago di sangue. Io piangevo ma tu non ti alzavi.
Quel giorno il mio mondo era inciampato ed era finito con la faccia dentro una pozzanghera.
Quella bambina è qui, proprio dove sono io ora. Non c’è il marmo ma una grossa buca e, attorno, tanta gente che piange.
Papà non piange. Se ne sta lì impalato, ammanettato a due poliziotti, gli occhi fissi su di un punto lontano, come se quei fantasmi che si agitano nella sua mente fossero veramente delle figure reali da scovare ed inseguire con lo sguardo.
Nemmeno io piango. Mi hanno detto che la mia mamma se ne è volata in cielo, anche se l’hanno appena messa nella buca e la stanno coprendo di terra. Non piango perché mi hanno detto che, adesso, andrò in un posto nuovo, bellissimo, dove ci sono tanti bambini e tante persone buone che si prenderanno cura di me.
Vedo la mia nuova casa, l’orfanotrofio, un posto squallido e freddo, uno scarico di un lavabo dove tutto sembrava ricordarmi il passato e dove le botte fioccavano come se piovesse. Un giusto prosieguo della vita che avevo vissuto fino a quel momento.
C’è ancora quel prete, che si era messo in testa di farmi conoscere il suo Dio a suon di sberle. “Devi volere bene a Dio!”, mi diceva sempre, “Dio ci ama, è il nostro padre, il nostro salvatore, l’essere onnipotente!”.
Ma io non capivo. Non capivo come mai, se Dio era davvero onnipotente, non aveva fatto nulla per salvare la mia mamma e, se davvero ci amava, perché aveva preferito portarsela in cielo anziché lasciarla qui con me.
E allora rispondevo che a Dio di bene non gliene volevo proprio. E così volavano altre sberle, altre punizioni, perché non dovevo bestemmiare e dovevo pentirmi dei miei peccati.
Il fatto è che io non mi sono mai pentita. Né dei miei peccati e neanche di aver accoltellato quel prete, qualche giorno fa, lasciandolo crepare addobbato con le sue stesse interiora, come le porte delle case decorate con vischio e coccarde rosse.
Aghi di ghiaccio giocano a bowling nelle vene. Nel cuore si dimena una vipera che, contorcendosi, morde. Il veleno dilaga e il proiettore del passato mi scaglia una nuova serie di fotogrammi davanti agli occhi.
Vedo ancora una casa, ma è un’altra casa. E’ la casa della mia famiglia affidataria.
C’è una ragazzina che cerca la compagnia dei suoi nuovi fratelli, ma, più la cerca, più loro la allontanano.
Allora, pur di giocare con loro, quella ragazzina accetta di fare il cane mentre gli altri sono tutti principi o principesse.
“Non facciamo nessuna distinzione tra te ed i tuoi fratelli!”, dicevano sempre i miei nuovi genitori, ma io non capivo perché se sbagliavano i miei fratelli la colpa era mia, se loro combinavano qualcosa il castigo toccava sempre a me, anche se non avevo commesso niente, non capivo perché loro non dovevano mai muovere un muscolo mentre io mi dovevo fare il culo come un mulo da soma e dovevo pure ringraziare.
Vedo umiliazioni e privazioni, tutti i giorni, sempre uguali, come corvi neri che volano lenti in un cielo opaco d'autunno, mentre, di notte, il mio nuovo padre si trasforma.
Incapace di contenere i ruggiti che rimbombano nell’oscurità del suo cervello, si spoglia senza fare rumore e si infila sotto le mie coperte. Mi accarezza con fare persuasivo, lentamente, ed io non posso fare altro che restare in silenzio e cedergli. “Lasciami fare…”, era il significato di quelle carezze, “Lasciami fare…è meglio…”, e io lo lasciavo fare, lasciavo che mi facesse male, molto male, finché le lacrime tagliavano come una lama il mio volto sfinito e affogavano il mio cuscino.
E poi vedo del sangue, tanto sangue. Sangue dappertutto. E’ come se una nebbia cremisi tentasse di affogare i miei pensieri.
Quando sono tornata ho visto ancora quello strano luccichio nei suoi occhi ogni volta che incrociavamo lo sguardo e mi è bastato osservare come lo puntava dritto, dentro la scollatura, per dire a me stessa che stavo facendo la cosa giusta.
Finalmente, la facevo finita con questa storia.
Sono entrata in casa piano, volevo che mi vedesse, in tutto il mio splendore di donna giovane. Uno splendore che lui aveva rubato, violentato, ucciso migliaia di volte.
Ora lo vedo strisciare e contorcersi annaspando in una melma rossa. Mi volto cercando di parare gli schizzi ma non posso evitare che una maschera calda e liquida coli sui miei abiti.
Sento l’odore del sangue. E’ dolce, ferroso e denso. Affondo la motosega nella gamba. Il rombo del motore rimbomba nella stanza, la catena scivola nella carne come se fosse burro. Dall’arteria recisa parte uno spruzzo brillante che inonda la parete e la trasforma in un’immensa carta da pacco rossa per il mio regalo di Natale personale.
Il sangue schizza forte, le urla fanno tremare i muri e una chiazza di urina si allarga sotto di lui. La catena gira veloce. Ha un sussulto, come un singhiozzo, quando incontra il femore. Poi riparte decisa, potente e devastante.
Inclino la motosega e la gamba mozzata si stacca. L’uomo sviene, dissanguato. Sollevo la motosega e la catena morde il collo dell’uomo. Solo pochi giri e anche la testa rotola sul pavimento.
Altri piccoli frammenti di ricordi, più lucidi, più recenti, irrompono come le poche fotografie riuscite di una pellicola rovinata, a tratti ancora comprensibile ed a tratti consumata dal lento trascorrere del tempo.
I frammenti si ricompongono e prendono forma. La forma dell’uomo che, un bel giorno, aveva fatto irruzione nel mio mondo.
E lo aveva illuminato.
Non parlava d’amore. Era l’amore incarnato, l’uomo più dolce, impetuoso e romantico sulla faccia della Terra. Ogni suo respiro era un brivido di piacere che mi attraversava il corpo.
“Vieni a stare con me, ti farò fare una bella vita!”, mi aveva detto.
Era premuroso e sempre presente. Era bellissimo e i suoi occhi erano due immensi laghi di oblio, capaci di catturarti e non lasciarti mai più andare via.
Ed era la mia ultima speranza di rifarmi una vita.
Ma io non volevo molto. Volevo solo scappare da una vita acida come un limone acerbo e da un cuscino sempre inondato di lacrime e pensieri amari. Volevo solo una famiglia per me. Una vera famiglia, con un marito buono ed affettuoso e dei bambini chiassosi e allegri, con cui passare di nuovo il Natale, come una volta, quando l’aroma acre delle bucce di mandarino abbrustolite si diffondeva in ogni stanza, quando tutto possedeva un sapore di fiaba e la sofferenza e il dolore non ne avevano soffocato la passione, come le spire di un serpente.
Il mio miraggio era tutto qui.
E questo miraggio si era schiantato molto presto su di un marciapiede, tra la peggiore feccia e violenze indicibili. Turni massacranti di giornate intere, decine di clienti, senza sosta.
E allora avevo capito. Avevo capito che dovevo dire addio all’illusione di ricominciare una vita decente, di trovare ancora un Natale tutto per me.
Procurarmi una pistola non è stato difficile. Sono sempre stata brava a superare gli ostacoli e la vita me ne ha fatti trovare molti sul mio cammino. Quello non era dei peggiori.
Sento ancora il suo fiato rancido sul collo. Ed anche il bruciore delle cinghiate e i lividi che segnano il mio corpo. Ho paura. Tremo, ma poi la rabbia prende il sopravvento. E’ come un morbo, una nube rosso scarlatto, radioattiva, contaminante. Dentro sento un fuoco che, anziché spegnersi, cova sotto la cenere ed è pronto ad esplodere.
Al primo colpo la rotula destra esplode, spargendo ovunque brandelli di carne e frammenti ossei. Poi un secondo colpo e se ne va anche quella sinistra.
Prendo il coltello ed una macchia rosso scuro si allarga velocemente all’altezza dell’inguine come una rosa che sboccia piano piano.
Me ne vado soddisfatta, ammirando lo spettacolo come un pittore ammira il suo capolavoro appena concluso.
Nei miei occhi rimane impressa l’immagine del mio albero di Natale, condensata in un presente immortale. Un corpo immerso in un bagno color amaranto con due palle recise e depositate sui palmi delle mani e un pene mutilato ficcato, a mo’ di puntale, in una bocca che disegna una smorfia grottesca. Nelle orecchie risuona un piagnucolio disperato che si trasforma, via via, in rochi rantoli fino ad affievolirsi e zittirsi per sempre.
Tolgo un fiore rinsecchito da un vaso lì accanto e lo appoggio proprio sotto la tua foto.
Mi adagio sul marmo bagnato, ancora accanto a te, come una volta.
Dalle lapidi mute si levano diafane scie di nebbia, aliti di morte condensati, soffiati dalle bocche spalancate dei teschi interrati.
Vite spente, come sigarette anonime calpestate sul ciglio della strada.
Ma non mi impressiono, ho ben altro da fare. Oggi è Natale e deve essere un giorno meraviglioso perché lo si festeggia con la famiglia. Il mio, invece, avrà un particolare in più che lo renderà speciale: lo passerò qui, insieme a te, mamma.
Come una volta. Quando a Natale ero felice, anche se il mio unico regalo era solo una manciata di dolci. L’ho sempre saputo che li prendevi dal bar dove, ogni tanto, facevi le pulizie e che li nascondevi nel vecchio vaso di ceramica sopra la credenza. L’ho sempre saputo ma non ti ho mai detto niente, per non ferirti, perché la tua felicità è sempre stata anche la mia, perché il regalo più bello per me era vederti stare bene e sorridere, senza più quei lividi sulla faccia e sulle braccia.
Dove se ne sono andati quei giorni così gioiosi? Così diversi da tutti gli altri, che passavamo abbracciate, sperando che papà non prendesse di nuovo il bastone. Dove è finita tutta quella felicità? Se ne è andata insieme te? Forse, ma il fatto è che niente oggi ha più lo stesso sapore e nei miei occhi non trovo più la stessa gioia, smarrita ormai nel vortice del tempo.
Mi rannicchio, ti abbraccio ancora e mi appisolo sul tuo grembo, finalmente al riparo da tutte le brutture di questo mondo marcio, nascosta ai miei stessi pensieri che questo silenzio innaturale aiuta ad affacciarsi prepotentemente sul balcone della memoria.
Fa un freddo cane, un freddo che penetra fin dentro le ossa e che non è soltanto atmosferico.
Ma qui si sta bene. Potrei rimanere qui così, per sempre, immersa in questo silenzio estremo, circondata da questa atmosfera irreale ad assaporare questi momenti preziosi.
Il tempo si amalgama vaporoso con la nebbia e con le sottili gocce di freddo che si attaccano alle narici.
Va tutto bene, adesso, lo sento nel corpo, nella testa, sulla pelle. Arriverà anche il sonno, dolce come sempre. Dolce come te.
Non so quanto tempo è passato. Un rumore mi desta da questa estasi.
Alzo il viso ed il vento ghiacciato fa scempio dei miei capelli.
In un angolo, un mulinello di foglie volteggia con grazia spinto da un turbine invisibile, al ritmo di una melodia natalizia che immagino di sentire davvero.
Un lampeggiante blu ammicca al di là del muro. Subito dopo un altro ed un altro ancora.
Pare quasi di scorgere il riverbero delle decorazioni luminose che di questi tempi ornano le finestre.
Vicino al cancello si materializza la sagoma di una divisa che subito svanisce lentamente nella luce ovattata di questo freddo mattino. Allungo la mano per prendere la pistola. Poi sento un sibilo. Un fischio nella nebbia, che pare viaggiare nel tempo e venire da una catapecchia in un paese minuscolo di tanti anni fa.
La testa mi scoppia e un dolore caldo si diffonde nel petto. Il mio corpo cade e si adagia tra il marmo ed il vialetto, accanto alla tua foto, in bianco e nero, come i miei pensieri.
Un poliziotto corre verso di me. E’ una ragazza. Potrebbe avere la mia età. Potrebbe essere l’amica che non ho mai avuto.
Si inginocchia e mi prende la mano, mentre un collega rimane incollato all’auto a blaterare qualcosa alla radio.
Mi dice di non preoccuparmi, che hanno chiamato l’ambulanza.
Non mi preoccupo. Le sorrido e le stringo la mano, mentre rivoli di sangue sgorgano dalla bocca e trovano la strada fino al terreno, come un esercito di vermi telecomandati.
Sento il dolore crescere, farsi più intenso, sento i brividi correre sempre più forte, il freddo aumentare e il giorno diventare più scuro in un innaturale, prematuro, tramonto.
La poliziotta si toglie la giacca e ne fa una specie di cuscino che mi appoggia delicatamente sotto la testa. Mi dice di tenere duro, che l’ambulanza sarà qui a momenti.
Le sorrido ancora ma il mio sorriso è velato da un tratto amaro. Sono nata qui e so bene dove si trova l’ospedale più vicino e so calcolare quanto ci può mettere l’ambulanza ad arrivare, arrancando per chilometri su queste strade strette e macilente, affogate in un sudario di nebbia che cola come cemento liquido.
I ricordi ora si fanno fumosi, come la nebbia fredda sulla tua lapide. Diventano gocce di cristallo che rigano di lacrime la tua fotografia ormai ingiallita. Ormai è buio e da qualche parte sento giungere un tenue profumo di buccia di mandarino essiccata che si mescola delicatamente con l’odore aspro di umidità e stoppie marcite.
La ghiaia del vialetto non punge più. E’ diventata soffice, come il muschio del presepio. Chiudo gli occhi e aspetto.
Come quando ero piccola, addormentata sul nostro vecchio divano, nella speranza che tu mi prenda ancora una volta in braccio e mi porti a letto.




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Racconto scritto il 09/12/2020 - 15:14
Da Paolo Guastone
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