L’ESILE ALBERO
Era un frizzante sabato mattina di fine ottobre. La giornata si presentava bella e piacevole, con un cielo azzurro tenue attraversato da bianche nubi che giocavano a rincorrersi.I tiepidi raggi del sole, accompagnavano un’aria fresca e pulita che dava sollievo allo spirito. Stavo scendendo con la macchina in direzione Teolo, dopo un’appagante escursione sul Monte Grande. Negli occhi avevo ancora impresse le fiammeggianti tonalità di un incantevole autunno che vestiva di suggestiva bellezza una natura che per tutto l’itinerario non smise di regalarmi momenti di autentica emozione.Continuando a scendere piacevolmente lungo i tornanti che mi riportavano a Villa, intravidi, tra due caseggiati, uno scorcio di paesaggio che attirò la mia attenzione.Fu un attimo, un flash, un’immagine appena sfiorata con lo sguardo, ma tanto bastò perché decidessi di fermarmi: il mio desiderio era quello di conoscere la sua reale bellezza e magari fotografarla. Cercai in qualche modo di parcheggiare la macchina, trovando non poche difficoltà visto la precaria posizione di discesa. Per fortuna, proprio in quel momento, si liberò un posto così potei sostare tranquillamente. Ero a pochi metri da dove iniziava la vallata che, in un susseguirsi di morbidi saliscendi, s’incontrava con le frastagliate pareti del Pendice. Con la macchina fotografica a tracolla, iniziai a risalire la strada per qualche metro fino a raggiungere alcune abitazioni poste sotto il livello della strada. In fianco ad una di queste, vi era una stradina sterrata che inizialmente credevo fosse un sentiero. Due alberi di melograno mi davano il benvenuto, mostrando con orgoglio i rossi frutti. Percorsi incuriosito lo stretto budello di terra che s’inoltrava dritto tra la vegetazione. Camminando, respiravo come fosse un balsamo medicamentoso l'humus del sottobosco e ascoltavo il leggero e ritmato scricchiolio delle foglie secche che si sgretolavano al mio passare. Il sole filtrava la sua luce tra i rami degli alberi creando magiche raggiere che andavano a lambire il terreno. Mi sentivo felice, perfettamente a mio agio in un ambiente che mi trasmetteva forza ed energia. Affrettai il passo ma, con il passare dei minuti, fui preso da un’inconscia eccitazione che pian piano trasformò le mie certezze in dubbi: stavo veramente percorrendo un sentiero? Non conoscevo bene quella zona e per di più, man mano che andavo avanti,la vegetazione si faceva sempre più selvaggia e intricata. Più che un sentiero, sembrava un vecchio tratturo in disuso e poco frequentato. Dove mi avrebbe portato? Valeva la pena continuare o forse, visto anche il tempo incerto, avrei fatto meglio a tornarmene indietro? Smisi di pormi altre domande e proseguii. Ormai ero consapevole di trovarmi dentro a un'avventura e di doverla vivere fino in fondo. Quel tratto di natura appena scoperto mi ronzava con insistenza nella testa, diventando a questo punto un chiodo fisso, una meta da raggiungere a tutti i costi. Alle undici e mezzo un cupo grigiore cominciò a oscurare il paesaggio, scolorendo all’improvviso tutto quello che fin prima era un paradiso di colori.Temetti il peggio, anche perché ero sprovvisto di tutto in caso di pioggia.Rischiai e andai avanti.Dopo aver passato una vegetazione di castagneti e roverella, notai che la luce si faceva sempre più viva e presente. La vegetazione pian piano cominciava a diradarsi, miscelandosi ai pochi spazi d’azzurro rimasti. Vedendo la meta vicina, tirai un sospiro di sollievo. Attraversai ancora un breve tratto di saliscendi, finché mi ritrovai nei pressi di una selletta erbosa ricoperta da un verde talmente invitante, che faceva venir voglia di togliersi via calzini e scarponi e camminarvici sopra a piedi nudi. Feci ancora qualche passo ed ecco aprirsi un fantastico panorama sulla conca di Teolo, sul Pendice e ancora più il là sul Venda, il Vendevolo e il Baiamonte. Abbandonai lo sguardo in quella tavolozza di colori e sfumature che scivolavano giù per la valle, macchiando d’autunno la pianura. Incorniciavano case, lambivano boschi, prati, coltivi, mentre la tenue luce che si era venuta a creare, velava di magia il paesaggio. A un certo punto, come attratto da un magnete, mi girai e … click! Ecco l’immagine che desideravo vedere! Ecco l’inquadratura tanto agognata! Stava proprio lì, davanti ai miei occhi, nitida e reale. Nei pressi di una collinetta si ergeva un alberello, ormai spoglio. Le sue forme flessibili e severe, risaltavano appieno sullo sfondo grigio scuro dei colli. Era l’unico, non ve n’erano altri nelle vicinanze. Sporgeva in avanti come se cercasse di rubare al cielo un ultimo respiro. Il tronco, flebile e smunto, sosteneva rami dinoccolati e secchi; sembrava la mano di un vecchio indebolita dall’età e dalla fatica. Qualche sparuta foglia dava l’impressione di non volersi staccare da chi, per anni, le aveva donato forma e colore. L’insieme mi apparve subito triste e malinconico. Nacque in me un senso di solitudine che mi integrò perfettamente a quel momento. Forse in un ambito diverso, in una di quelle giornate miti e assolate che mettono allegria, quella veduta mi sarebbe apparsa scontata e insignificante; ma in quell’atmosfera così placida e misteriosa accarezzata da una lunare bellezza, tutto mi sembrò surreale e magico. Presi con trepidazione la macchina fotografica. Avevo timore che quell’istante mi sfuggisse, scomparisse nel nulla e allora cominciai a scattare, cambiando inquadrature e tempi d’esposizione. Ad ogni scatto guardavo sul piccolo monitor, se l’insieme mi convinceva o meno, se la luce esistente creava la giusta atmosfera, se i chiaro-scuri che ne uscivano, valorizzavano del tutto quell’esile albero diventato, all’improvviso, centro assoluto della mia ispirazione. Volevo dar vita a un’immagine che si avvicinasse il più possibile a ciò che avevo in mente e che, una volta sviluppata, apparisse come in un “quadro sublime” dove gli odori e i colori, potessero andare di pari passo alle emozioni e alle sensazioni che in quel momento stavo provando. Ero così assorto e concentrato nelle mie inquadrature, che non mi resi conto dell’assoluto silenzio che mi stava circondando. Distolsi per un attimo la mia attenzione su ciò che stavo facendo e mi guardai intorno. Nessuna macchina, nessun vociare di gente, non un cane che abbaiasse. Niente. Solo il respiro dell’aria che accompagnava il mio. Restai immobile ad ascoltare quella sinfonia di pace, ad inalare fino in fondo quei profumi di terra umida, di foglie marce, di resina, di legna bruciata. Erano odori sparsi nell’aria, giunti a me sotto forma di delicate essenze: inebrianti sensazioni che m’inoltravano nelle silenziose profondità dell’anima. Un alito di vento mi accarezzò il volto; un altro invece, mi portò l’eco di solenni campane che scandivano mezzogiorno. In una breve carrellata controllai sul monitor della reflex gli scatti ottenuti, ritenendomi soddisfatto del risultato raggiunto. Guardai un’ultima volta quell’esile albero, promettendomi di ritornare ai primi tepori della primavera, quando avrebbe nuovamente indossato i colori della vita. Ripresi la via del ritorno a testa bassa, pensando. Il cielo si annuvolò ancora di più, diventando all’improvviso minaccioso. Accelerai il passo cercando di uscire in fretta dalla boscaglia e arrivare sicuro alla macchina. Anche il vento si alzò, aumentando di colpo il fruscio degli alberi mentre le inerti foglie, staccandosi dai rami, si lasciavano andare ad un'ariosa danza. Era bello vederle volteggiare, piroettare, rincorrersi, inghiottite da improvvise spirali che, beffarde, si prendevano gioco di loro spostandole qua e là in un miscuglio di caldi colori, che ravvivavano un ambiente fino a quel momento uggioso e malinconico. Stavo avvicinandomi alla strada, quando un’ondata di profumi invitanti mi fece trasalire e mi riempì di buono le narici: erano gli effluvi del pranzo che provenivano dalle case vicine: un “tourbillon” accattivante e gioviale di odori e sapori che si confondevano in un alone di vera piacevolezza. Passandovi accanto, immaginai d’inoltrarmi all’interno di quelle mura e di sedermi intorno a un tavolo, in compagnia di un bicchiere di vino, al calore amico di vecchi racconti. Sbucai finalmente in strada e m’accorsi che, vicino al guardrail, dove prima sostava una fila di macchine, ora vi era solo la mia. Avevo deciso, prima di tornare a casa, di scattare ancora qualche foto per catturare gli ultimi rivoli d’emozione che quella giornata mi stava offrendo. Mi fermai nei pressi dell’abitazione dove troneggiavano i due melograni che, all’andata, mi diedero il benvenuto. Era una casa non molto grande, un po’ trasandata, dalle pareti color mattone chiaro. Nella facciata principale, ai lati della porta d’entrata, dei balconi malridotti, di un verde che non saprei descrivere, socchiudevano appena i vetri delle finestre. Ogni tanto, qualche spirale di vento si divertiva a farli dondolare avanti e indietro, quasi volesse giocarci. Il fine cigolio che si spargeva nell’aria, somigliava tanto al suono flebile di un lontano lamento, di un nascosto pianto. In un lato della casa, quello meno esposto, macchie di umidità invadevano l’intera parete dando al colore, una tonalità più scura. In qualche punto la tinta iniziava a scrostarsi, formando sottili lamelle arricciate che scoprivano la grigia nudità del muro. In parte alla casa, vi era un piccolo orticello, coltivato con parsimonia, il minimo indispensabile, e uno spiazzo erboso dove un paio di galline dal bel piumaggio grigio, stavano passeggiando come due comari, tutte impettite e fiere di sé. Mentre con la mia reflex provavo alcuni scatti,da dietro i vetri di una finestra, mi apparve un’anziana signora che, con sguardo accigliato e sospettoso, seguiva preoccupata i miei movimenti. Con un cenno del capo e un sorriso la rassicurai, tentando di farle capire che ero lì per altri motivi. Ma l’anziana donna, imperterrita, continuava a seguirmi con occhi sempre più sospettosi. Allora, abbassai “ l’oggetto inquietante” e mi allontanai. La signora, conscia della mia resa, rilassò il suo volto, lasciandosi andare a un’espressione più serena e tranquilla. Poi la vidi scostarsi dal vetro e sparire lentamente dietro la tendina della finestra. Fu un’apparizione sfuggevole, improvvisa, ma che mi rimase impressa negli occhi.In quei brevi istanti, riuscii a leggere nel suo volto seminascosto dalla tendina, qualcosa che mi restò dentro. Le sue movenze, il suo incedere lento e misurato, furono sensazioni che mi trasmisero una sorta di malinconica esistenza, di perpetua solitudine. Qualche mese più tardi, come in un giocoso rincorrersi di circostanze, il vento del destino soffiò sulle nostre strade, facendoci nuovamente incontrare. Un incontro intimo e diretto in cui venne fuori tutta la sua solarità e purezza di donna semplice e genuina. Ripensando a quanto mi era accaduto, discesi senza fretta la strada che mi portava alla macchina. Ai margini del marciapiede, si erano formati mucchietti di foglie multicolori che andavano a sovrapporsi ad altre che pioggia e fango avevano ormai scolorito. Mosse poi dal vento, le foglie appena cadute ricominciavano a librarsi nell’aria andando a posarsi come ali di farfalla su prati, viottoli e giardini, imbrattandoli in una disordinata policromia autunnale. Mi levai dal collo la macchina fotografica,la rimisi nella custodia e la depositai sul sedile posteriore dell’auto. Ero pronto a partire, ma prima mi voltai ancora una volta a guardare quelle due case e quello scorcio che stava nel mezzo, così unico e solitario. Il tempo non migliorava, anzi. Si era formata una leggera foschia che velava, come un vetro opalescente, i colli e la pianura. Scivolando lungo la strada che mi portava verso casa, con il finestrino semiaperto cercavo di carpire nell’aria i profumi dell’autunno, prima che l’inverno, con il suo magico candore, ricoprisse ogni forma di vita per un nuovo, lungo letargo.
Opera scritta il 31/07/2014 - 15:43
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Commenti
Il tuo commento mi lusinga. Grazie!!
Massimo Guercini 01/08/2014 - 21:52
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Un racconto che ti coinvolge n. ella sua scorrevolezza... il mio elogio...
Rocco Michele LETTINI 01/08/2014 - 18:28
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